Una nuova vita quotidiana, visioni dal futuro

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Una sorta di sceneggiatura di Federico Butera che illustra il vecchio e nuovo paradigma energetico e ambientale. La lotta contro il riscaldamento globale richiederà cambiamenti di enorme portata che condizioneranno abitudini e valori del nostro vivere quotidiano. Un approccio spesso trascurato in tutti gli scenari che guardano al futuro.

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L’articolo è stato pubblicato sul n.5/2011 della rivista bimestrale QualEnergia (scarica versione pdf)


Sulle pagine di questa rivista non si contano gli interventi che, esplicitamente o implicitamente, prefigurano un nuovo modello energetico – un “paradigm shift”, come dicono gli anglosassoni – che si basa su tre presupposti: l’efficienza energetica, le fonti rinnovabili e la produzione decentrata a piccola scala dell’energia.


Ciò che non è ancora comparso è un intervento che espliciti una visione della nostra vita quotidiana, del nostro modo di produrre, di muoverci, di usare gli oggetti in un mondo in cui il nuovo modello energetico si sia affermato e in cui la lotta contro il riscaldamento globale abbia avuto successo, o stia avendolo. È un esercizio che vale la pena fare, perché mette in evidenza l’enorme portata dei cambiamenti che dovranno aver luogo; cambiamenti che rivoluzionano tutta una serie di valori, abitudini, modi di vivere che hanno caratterizzato la società industriale e caratterizzano il nostro quotidiano.


L’elaborazione di uno scenario completo (o, meglio, di più scenari possibili) richiederebbe uno studio ad hoc, interdisciplinare, in cui siano coinvolti tutti i campi del sapere: dalla filosofia alla letteratura, dalla sociologia all’economia, dalla fisica alla psicologia. Però si può provare a dare un assaggio, isolando alcuni elementi di questo scenario: una specie di trailer esteso in cui sono contenute scene di un film girato in uno dei possibili futuri. Il film è un documentario educativo girato in un anno indefinito fra il 2050 e il 2100, e quelle che seguono sono parti della sceneggiatura.


SCENA 1


Immagini a volo d’uccello delle più importanti metropoli del mondo. Gli ultimi scheletri dei grattacieli che furono l’orgoglio dei cittadini che potevano vantarli vengono abbattuti per fare posto a edifici molto più bassi, distanziati tra loro in modo da non farsi ombra.


Voce fuori campo «La modernità di una città, nell’era del fossile, era definita dal suo skyline, irto di grattacieli. Così erano Londra e Los Angeles, Shanghai e San Paolo, Chicago e Dubai. Ma gli edifici di una città alimentata solo da fonti rinnovabili devono essere a energia zero, o addirittura devono produrne più di quanta non ne consumino, e il rapporto fra la superficie bene esposta al sole (facciata sud e tetto) e la superficie totale non può essere inferiore a un certo valore, che dipende dal clima e dalla destinazione d’uso. Gli edifici molto alti, salvo rare eccezioni, non sono compatibili con una città energeticamente sostenibile».


SCENA 2


Una sequenza di immagini di edifici tutti di vetro, tutti uguali in tutto il mondo. Foto d’archivio di un passato che non c’è più, sostituite da immagini di edifici in cui la proporzione di vetro è diversa a seconda delle caratteristiche climatiche del luogo ed è diversa su ogni facciata.


Voce fuori campo «Ancora nel secondo decennio del XXI secolo agli architetti sembrava non fosse giunta notizia del cambiamento climatico, delle sue cause e degli effetti derivanti. Ancora sostenevano che il vetro conferisse agli edifici leggerezza e trasparenza. Più vetro c’è, più sono leggeri e trasparenti, dicevano. Dimenticando che era una leggerezza che pesava migliaia, milioni, di tonnellate di CO2, a causa dell’insensato spreco di energia necessario per renderli appena vivibili; una trasparenza che riduceva quella dell’atmosfera, rinforzando l’effetto serra. Una trasparenza e una leggerezza che nascondevano alla vista l’enorme peso di macchine, tubi, canali per mantenere condizioni ambientali decenti».


SCENA 3


Una serie di immagini di planimetrie di città, nuove e antiche; zoom sulle parti nuove di quelle antiche. Si vedono case allineate a ferrovie, a superstrade, a canali e laghi artificiali.Poi immagini dall’alto di nuovi insediamenti, dalla distribuzione apparentemente irregolare, e comunque senza traccia di allineamenti con artefatti preesistenti.


Voce fuori campo «Per tutto il XX secolo e l’inizio del XXI gli urbanisti si sono lasciati incantare dalla forma urbana che si vedrebbe dall’alto (ma quanti cittadini si spostano in elicottero?) e dagli allineamenti sulle preesistenze: una strada, una ferrovia, un canale, un qualsiasi segno sulla mappa. Pochi ricordavano che le preesistenze più antiche sono il percorso del sole e la direzione dei venti».


SCENA 4


Immagini dal XX secolo. Riprese di città nord americane con bassissima densità; di città europee più dense. Immagini di autostrade urbane, piene di auto in coda, che connettono le aree in cui ci sono le residenze con quelle in cui ci sono gli uffici e con quelle in cui ci sono i centri commerciali, i cinema multisala, i ristoranti. Dissolvenza. Compaiono piccoli centri e grandi città divise in piccoli centri, nei quali abitazioni, uffici, ristoranti e negozi sono tutti integrati fra loro. Le strade sono piuttosto strette e percorse da pochi veicoli; molti i pedoni e i ciclisti.


Voce fuori campo «Il XX secolo centrò la pianificazione urbana sul concetto di zonizzazione. Nelle città nuove e, dove possibile, anche nelle città esistenti, le funzioni urbane base – abitare, lavorare, distrarsi e acquistare – furono spazialmente separate, per la prima e ultima volta nella storia dell’uomo.


Era l’apoteosi dell’automobile; qualunque cosa si volesse fare, bisognava usarla. I centri commerciali sostituirono la piazza e le strade con i negozi sotto casa, e spazzarono via le relazioni sociali di vicinato: da casa all’ascensore, alla macchina, al centro commerciale, con ristorante e cinema incluso, e ritorno a casa. Il nuovo paradigma energetico ha fatto piazza pulita di tutto ciò. I centri commerciali, i supermercati, i cinema multisala sono spariti. Le città sono caratterizzate dall’uso misto: residenza, lavoro e tempo libero si intrecciano, favorendo le relazioni sociali, ridando spazio ai piccoli commercianti e rendendo superflua l’automobile».


SCENA 5


Uno spezzone di film dell’inizio del XXI secolo: un fast food pieno di gente che si ingozza di hamburger e patatine fritte. Dissolvenza: una stalla piena di bovini pigiati l’uno accanto all’altro e mangiatoie nelle quali viene continuamente riversato del mangime. Dissolvenza. Un campo viene arato e seminato; poi è la volta dei concimi e dei diserbanti; poi la raccolta, il trasporto, la lavorazione e la conservazione; poi ancora il trasporto nelle stalle, e la distribuzione nelle mangiatoie.


Dissolvenza. Una strada affollata di New York, con un continuo zoomare sugli obesi, tanti, tantissimi. Altra dissolvenza: bovini che pascolano in un prato, polli che razzolano in un cortile.


Voce fuori campo «All’inizio del XXI secolo, più del 18% dei gas climalteranti era causato dall’allevamento del bestiame, tenendo conto di tutta la filiera che include le emissioni dovute alla lavorazione meccanica del terreno, agli ossidi di azoto derivanti dai concimi, alla raccolta e trasporto del mangime, oltre al metano prodotto dai bovini nel loro processo digestivo e successivamente. I mangimi erano prodotti agricoli commestibili anche dall’uomo, e a lui sottratti. Per questo le carni, e specialmente le carni rosse, sono state progressivamente bandite dalla tavola, eccetto che nelle grandi occasioni, con grande vantaggio per l’ambiente e per le fasce più povere della popolazione, che hanno avuto a disposizione cibo che prima era loro precluso, perché destinato agli animali. Grazie a questa politica è anche enormemente diminuito il costo della sanità pubblica, dato che una dieta in cui la carne compaia solo occasionalmente è molto più salutare».


SCENA 6


Una ripresa in cui si vedono scorci di città con molto spazio destinato agli orti urbani. Gente che lavora; un viavai di persone che acquistano frutta, verdura e ortaggi.


Voce fuori campo «Un ananas sulla vostra tavola ha viaggiato per alcune migliaia di chilometri. Un pomodoro in gennaio ha richiesto che la serra in cui è stato prodotto sia stata riscaldata o, se viene dall’altro emisfero – dove è estate – ha viaggiato anche lui per migliaia di chilometri. E per giunta non è neanche tanto buono. Nel XX e all’inizio del XXI secolo il cibo si acquistava al supermercato, dove si trovava pesce delle Filippine, ananas del centro America, manghi del centro Africa, peperoni coltivati in serra, eccetera. Il tutto con costi energetici, e quindi emissioni, del tutto ingiustificati. Poi c’erano i surgelati: cibo prodotto in una stagione, surgelato e venduto nell’altra, con grande spreco energetico. Questo sistema è stato progressivamente smantellato e sulle nostre tavole arrivano quasi esclusivamente prodotti di stagione e provenienti dai dintorni o – meglio – dagli orti urbani. Gli ananas, i manghi, le papaie sono un lusso, e come prodotti di lusso vengono tassati».


SCENA 7


Riprese di fabbriche trasformate in abitazioni e uffici, e sequenze che mostrano l’abbattimento di grandi capannoni industriali con successiva bonifica e trasformazione in orto o in parco. Dissolvenza. Riprese di ciabattini, sarti, falegnami, fabbri e altri artigiani.


Voce fuori campo «Una società basata sulla crescita è necessariamente anche basata sul consumismo, cioè sulla produzione crescente di beni. Per indurre a consumare, in una società già ricca, occorre stimolare bisogni inutili e imporre una rapida obsolescenza dei prodotti, giocando sulla pubblicità, il credito e la moda da una parte e sulla ridotta durata e sulla scarsa o nulla riparabilità degli oggetti dall’altra. Nel 2000 circa il 30% delle emissioni di CO2 dei Paesi industrializzati era dovuto alla produzione industriale. Una prima riduzione fu ottenuta migliorando l’efficienza energetica dei processi, ma era poca cosa.


Per ridurre significativamente le emissioni del settore industriale occorre ridurre la produzione. Per ottenere questo risultato senza effetti negativi sull’occupazione e sulla qualità della vita, si è dovuto progressivamente far sviluppare una cultura della sobrietà e della fantasia. Invece di lavorare alla catena di montaggio per avvitare sempre la stessa vite di un infisso, trasformarsi in falegname che costruisce porte e finestre. Invece di incollare migliaia di suole al mese, diventare calzolaio, che sa anche fare le scarpe su misura, e che durano.


Per evitare la crescita della produzione industriale e favorire il riuso e la riparazione, oggi i prodotti devono poter durare un numero di anni predefinito e devono essere riparabili. In questo modo l’occupazione persa nell’industria si è recuperata, e moltiplicata, nell’artigianato – con una straordinaria valorizzazione del potenziale e della dignità dei lavoratori. Anche nella produzione vale il principio del passaggio dalla concentrazione al decentramento».


SCENA 8


Immagini dal XX secolo. Una lunghissima coda davanti al Louvre, a Parigi; un’altra lunghissima coda davanti agli Uffizi, a Firenze. Poi il filmato mostra calche di visitatori che sfilano veloci davanti ai capolavori dell’arte, occupati solo a fare foto. Ripresa dall’alto, a Venezia, poi a Roma, poi a Parigi, poi a Firenze: pullman che vomitano in continuazione passeggeri che vengono organizzati in plotoni che sciamano per le strade, poi si disperdono per qualche tempo, e poco dopo si riaffollano davanti agli automezzi. Segue una rapida successione di altre immagini: un aeroporto affollato, lunghe code per l’imbarco, una cabina d’aereo, una spiaggia inondata di sole (potrebbe essere dovunque, in Africa, in Asia, nelle Americhe, nel Mediterraneo, nel mar Rosso …), gente che entra ed esce dall’acqua, un ristorante gremito che potrebbe essere ovunque, una fila in aeroporto, una cabina d’aereo, persone abbronzate e in maniche di camicia, intirizzite dal freddo, in fila per un taxi».


Voce fuori campo «Nella società dei consumi, anche il paesaggio, la natura venivano consumati. Si inventò una parola nuova, turista, per indicare il consumatore di questo tipo di prodotto. Per migliaia di anni era esistita solo la parola viaggiatore. I viaggiatori, al contrario dei turisti – che guardano ma non vedono – raggiungevano i luoghi lentamente, assaporando le differenze fra il punto di partenza e quello di arrivo; e si fermavano abbastanza da capire la diversità del luogo in cui si trovavano rispetto a quello di origine, per entrare in contatto con la gente, a vivere per un po’ con loro e come loro, con grande arricchimento culturale. Per questo oggi non è più consentito il turismo mordi e fuggi, che costava, fra l’altro, milioni e milioni di tonnellate di CO2 emesse da aerei, pullman e automobili. Abbiamo ripristinato la figura del viaggiatore. Per questo chi vuole partire, deve stare fuori per almeno un mese, tutto il tempo nella stessa città o regione, e non è più concesso saltare da una città all’altra, da un Paese all’altro nel giro di pochi giorni. Per chi rimpiange quei tempi, abbiamo messo a disposizione i tour virtuali, perfette repliche di quelli di una volta, ma realizzati in apposite sale attrezzate con megaschermi 3D per i paesaggi e immagini olografiche per la visita ai musei. Si può anche provare l’emozione di un safari fotografico, con straordinario realismo, grazie a web-cam ad alta risoluzione sistemate opportunamente nei posti più critici dei parchi naturali».


SCENA 9


Immagini dall’inizio del secolo XXI. Cortei che si snodano per chilometri nelle strade delle più grandi città; manifestazioni di piazza, composte e scomposte; primi piani di persone urlanti e disperate, poliziotti con equipaggiamento anti-sommossa, lacrimogeni, sangue, fiamme e ambulanze.


Voce fuori campo «La produzione concentrata e il consumismo portavano a crisi occupazionali ricorrenti. Un prodotto non andava più, perché reso obsoleto dalla pubblicità di un concorrente, anche se in nulla inferiore funzionalmente, e migliaia di lavoratori venivano licenziati. Un comparto industriale entrava in crisi a causa della concorrenza di un Paese che produceva a costi molto più bassi grazie allo sfruttamento dei lavoratori, e migliaia, milioni di persone erano sul lastrico.


La finanza internazionale speculava senza freni creando catene di sant’Antonio, inducendo fallimenti e creando migliaia, milioni di disoccupati. Per fortuna questi fatti non possono più accadere. Il metabolismo delle nostre città è teso principalmente, come per gli esseri viventi, alla manutenzione. Grazie alla generazione distribuita, centinaia di migliaia di generatori di calore ed elettricità a biomassa, di impianti fotovoltaici ed eolici devono essere mantenuti e con essi migliaia di mezzi di trasporto pubblici e tutto il sistema di raccolta e riciclo dei rifiuti. Sono stati così assorbiti tutti i posti di lavoro perduti nel comparto automobilistico, la cui produzione è drasticamente diminuita dal momento in cui è stata proibita la circolazione di automobili private dentro il perimetro urbano; da ciò la grande espansione del car sharing, ormai interamente basato su auto elettriche. L’occupazione è distribuita, come la generazione dell’energia. Le funzioni vitali del metabolismo urbano non sono soggette ai capricci della moda, alle speculazioni finanziarie o ai bassi salari di lavoratori in capo al mondo. L’occupazione è stabile e il lavoro molto più soddisfacente e creativo, come quello degli artigiani. Per ottenere questo risultato è stato necessario restituire le società dei servizi pubblici locali ai cittadini, invertendo la tendenza alla privatizzazione che si era manifestata all’inizio del XXI secolo. Del resto, il passaggio da privato a municipale dei servizi pubblici urbani era già avvenuta, all’inizio del XX secolo, perché un servizio pubblico non può essere privato».


SCENA FINALE


Possiamo fermarci qui, lasciando al lettore, se vuole, di proseguire l’esercizio immaginando altre scene, o addirittura l’intero documentario. Possiamo però mettere in evidenza alcuni elementi a cui in genere chi promuove l’efficienza energetica e la generazione distribuita basata sulle fonti rinnovabili spesso non presta attenzione. Le nove scene sopra descritte dimostrano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il nuovo paradigma energetico richiede, per essere messo in atto, una serie di trasformazioni radicali: il linguaggio dell’architettura deve cambiare; oltre un secolo di cultura architettonica deve essere sostituita da un’altra, che integra il fattore energia nella progettazione. Una rivoluzione, che si può attuare nel breve tempo che abbiamo a disposizione solo attraverso imposizioni di legge (la direttiva sugli edifici a energia quasi zero a partire dalla fine del 2020 è un passo importante in questa direzione); anche l’urbanistica riceve un serio scossone, forse ancora più grande, e tutte le regole relative alle densità, alle interdistanze fra edifici e ai rapporti verde/costruito devono essere interamente rivisti, con un forte calo di valore delle aree edificabili. E comunque dovrà essere affrontato e risolto, caso per caso, il problema della densità ottimale, legato all’integrazione spaziale delle funzioni, e quello del futuro dei centri commerciali e dei supermercati; la letteratura scientifica nei settori della climatologia e della medicina non ha dubbi: le carni, specialmente quelle rosse, costituiscono un costo troppo alto per la salute del Pianeta e per quella degli individui.


Quali provvedimenti prendere? Tassazione alle stelle per rendere una bistecca un evento che ci si può permettere solo nelle feste grandi? Oppure opera di convincimento (incollare sull’hamburger una scritta del tipo di quella che c’è sui pacchetti di sigarette)? Del resto, una bistecca ogni tanto non fa male né al Pianeta né all’individuo, ma è un piacere, come una sigaretta ogni tanto; il tabù più difficile da violare, tanto che non ne parla mai nessuno (escluso Serge Latouche, nel suo “Scommessa della decrescita”, e pochi altri) è quello della riduzione della produzione industriale.


Eppure c’è poco da dire: è la causa del 30% delle emissioni, una larga quota delle quali è il prodotto del consumismo. Tutte queste merci sono inutili e dannose, e non soddisfano altro che bisogni indotti; la qualità della vita non se ne avvantaggia. Eppure è facile pronosticare che le resistenze al cambiamento sarebbero enormi; la riduzione della produzione industriale ha una compensazione nella rivincita dell’artigianato; non è un’idea così peregrina, è un fenomeno che comincia a farsi strada nelle società più evolute, anche sull’esempio delle professioni più recenti, quelle legate all’informatica e alla telematica. Cominciano a tornare i calzolai, i sarti e i negozi in cui si ripara un po’ di tutto (il più delle volte vi dicono che non si può riparare, perché occorre sostituire l’intero blocco, e costa meno comprare lo stesso oggetto, nuovo).


C’è già una letteratura in proposito, con in testa Richard Sennet con il suo “L’uomo artigiano”. Il problema è quello della formazione: l’artigiano impara facendo. Occorrerebbe uno sforzo formativo e organizzativo gigantesco, per riqualificare i lavoratori della produzione industriale e spostarli via via sull’artigianato, mentre la produzione declina; e il turismo? Tutti sarebbero contro la sua abolizione e la sostituzione con il viaggio. Con ogni probabilità, però, ci penserà il costo del petrolio a favorire la transizione.


Detto questo, qual è la lezione che possiamo trarre? In tutte le scene del nostro trailer c’è dietro una decisione politica: una legge, un regolamento, una scelta di campo a favore o contro un attore sociale, economico, istituzionale. La maggior parte delle azioni politiche da svolgere possono, senza esagerare, definirsi rivoluzionarie, perché modificano sostanzialmente i rapporti di forza fra i diversi attori che compongono la società. Naturalmente, questo cambiamento non deve passare necessariamente dal bagno di sangue e dalla dittatura, purché la politica sia capace di farci traghettare dalla società fossile a quella rinnovabile.


La domanda da farsi, allora, è: la politica è capace di svolgere questo ruolo? O meglio, ci sono almeno dei politici che vogliano (e siano capaci) di assolverlo? La risposta è: se pure ci sono, sono pochi e nascosti, almeno in Italia. Altrove, almeno uno c’è stato certamente: un politico che per tutta la sua vita ha lottato per realizzare una società energeticamente sostenibile, e che è giusto che nel contesto di questo articolo venga commemorato. Si tratta di Hermann Scheer, venuto a mancare prematuramente quasi un anno fa. Membro del Bundestag nella compagine socialdemocratica, fondatore di Eurosolar, un’associazione per la promozione delle fonti rinnovabili che molto ha influito sulla politica energetica tedesca, ideatore e fondatore dell’Agenzia internazionale per le fonti rinnovabili, IRENA, insignito del prestigioso premio Nobel alternativo Right Livelihood Award per il suo infaticabile impegno nella promozione delle fonti rinnovabili, Hermann Scheer ha saputo coniugare visioni e realismo, impegno culturale e conoscenza dei meccanismi dell’azione politica per spingere verso la realizzazione di quel nuovo mondo libero dalla schiavitù del petrolio e del nucleare. Il tipo di politico, raro, che non esita a sacrificare il presente in nome di un futuro migliore in cui crede. Senza altre persone come lui, un nuovo paradigma energetico per tenere sotto controllo il riscaldamento globale è pura utopia, e il documentario che abbiamo immaginato un inutile esercizio di fantapolitica.

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