Transizione energetica, un’altalena fra pessimismo e ottimismo

La prima parte di una riflessione di Michael Liebreich, fondatore di BloombergNEF, sulle dinamiche che rendono la transizione energetica allo stesso tempo facile e difficile. Partiamo con la visione più pessimistica.

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La transizione energetica è allo stesso tempo semplice e difficile ed è normale oscillare tra ottimismo e pessimismo.

Da un lato, sono state introdotte e continuano ad affermarsi tecnologie energetiche pulite a prezzi accessibili e si può poi migliorare l’efficienza energetica, innovare e arrestare la deforestazione. Dall’altro lato, però, parliamo di un processo complesso che coinvolge tutti i settori dell’economia.

I consumatori devono cambiare i loro comportamenti, interi settori produttivi devono rimodulare i loro processi, bisogna creare nuove catene di approvvigionamento, si devono escogitare politiche e regolamentazioni innovative, e tutto ciò deve avvenire a livello globale nel giro di pochissimi decenni, con un impatto sui costi e i risparmi di un’intera generazione, se non di più.

Michael Liebreich, fondatore e adesso collaboratore di BloombergNEF, prende le mosse da queste osservazioni per analizzare meglio i motivi delle due reazioni emotive opposte legate alla transizione energetica, a partire dal fronte del pessimismo, trattato in questo articolo. Quello dell’ottimismo sarà discusso in un prossimo articolo.

La transizione energetica verso un’economia priva di aggiunte nette di carbonio nell’atmosfera è eccezionalmente difficile, secondo Liebreich, per i diversi motivi.

Michael Liebreich

Economia

Sebbene eolico e fotovoltaico siano diventati competitivi dal punto di vista dei costi della generazione elettrica, decarbonizzare il 10% più difficile dei consumi complessivi potrebbe costare come il 90% più facile.

La tecnologia delle batterie sta migliorando, ma per raggiungere la piena resilienza le batterie non bastano. Avremo bisogno di una combinazione di sovraccapacità rinnovabile, di interconnessioni multiple a lunga distanza, di molta più bioenergia, di energia nucleare, di stoccaggi tramite pompaggi idroelettrici e di stoccaggi a lunga durata di idrogeno o dei suoi derivati.

Inoltre, i costi di tutte le energie pulite devono diminuire ulteriormente per competere con il gas naturale e l’idrogeno sporco, oppure i prezzi del carbonio dovranno aumentare in modo significativo, a 200 $ la tonnellata, per comprendere nel prezzo delle fonti fossili le loro esternalità negative e scoraggiarne l’uso.

Ad oggi, non abbiamo né il quadro normativo né il sostegno politico per finanziare queste soluzioni, ha detto Liebreich, secondo cui i costi sono un problema anche perché, in gran parte del mondo, eolico, solare, batterie e veicoli elettrici a basso costo sono ancora un miraggio.

L’energia pulita quasi sempre comporta costi iniziali più elevati seguiti da costi operativi e di manutenzione più bassi. Questa soluzione è economica solo se si ha accesso a capitali a basso costo. Questa condizione sussiste in Europa, Giappone, Corea del Sud o Stati Uniti, dove il costo del capitale è del 6%, ma non se si è nel Sud globale dove il costo del capitale è del 15%.

Gli investimenti per la transizione nei Paesi in via di sviluppo, esclusa la Cina, devono aumentare da 770 miliardi di dollari a 2,8 trilioni di dollari all’anno entro l’inizio del 2030 per mantenere il mondo in linea con l’obiettivo di 1,5 °C, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea).

Le istituzioni finanziarie multilaterali hanno stanziato decine di miliardi di dollari di finanziamenti agevolati, ma forniscono ancora solo una frazione del necessario. Le riforme di queste istituzioni possono contribuire a ridurre il differenziale dei tassi d’interesse tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, ma non si può eliminare del tutto un premio di rischio quando esiste una reale differenza di rischio.

Espansione della rete elettrica

Il raggiungimento di zero emissioni nette di CO2 richiede una massiccia espansione dell’infrastruttura elettrica, stimata in 21,4 trilioni di dollari. Ciò comporta il raddoppio delle dimensioni dell’attuale rete elettrica mondiale, l’aumento dell’elettrificazione dal 20% attuale al 70% dei consumi energetici complessivi e la creazione di una grossa sovracapacità rinnovabile.

E tutto ciò deve avvenire in presenza, almeno attualmente, di colli bottiglia asfissianti per la autorizzazioni e in seconda battuta per le stesse connessioni fisiche alle reti di trasmissione e distribuzione.

L’entità della sfida è quasi inconcepibile. Per fare un esempio: nel maggio 2023, la National Grid del Regno Unito ha stimato che per raggiungere l’obiettivo net zero nel 2035 sarebbe necessario costruire entro il 2030 un numero di linee di trasmissione 5 volte superiore a quello costruito negli ultimi tre decenni.

“La cosa peggiore è che i politici non sembrano ancora aver compreso la portata del problema o il fatto che, come ha detto dieci anni fa Allan Andersen, professore associato dell’Università di Oslo: ‘senza trasmissione, non c’è transizione'”, ha detto il fondatore di BNEF.

Domanda di minerali

BloombergNEF stima che nel suo Scenario Net Zero il settore energetico utilizzerà entro il 2040 una quantità di minerali cinque volte superiore a quella attuale.

Per raggiungere lo zero netto, la domanda di litio da parte dell’industria energetica aumenterà di 14 volte entro il 2050. La domanda di terre rare utilizzate nelle turbine eoliche e nei veicoli elettrici crescerà di 11 volte. La domanda di rame aumenterà di sei volte e quella di cobalto raddoppierà.

Gli investimenti nel settore minerario sono raddoppiati negli ultimi due anni, ma anche se tutti i progetti in cantiere entrassero in produzione entro il 2030, si otterrebbe comunque solo il 75% dei minerali necessari per mantenere il mondo su un percorso di 1,5 °C, secondo la Iea.

La nuove miniere impiegano in media non meno di 16 anni per passare dalla caratterizzazione delle risorse alla produzione. È probabile che questo processo possa essere accelerato, ma a quale rischio per l’ambiente e la giustizia sociale?

Politica

Anche nei Paesi ricchi, l’impegno politico nei confronti dell’azione per il clima è fragile, con una diminuzione dell’interesse dell’opinione pubblica e pareri divergenti tra i partiti politici.

L’Ue è vista come una paladina del clima, ma si trova sempre più spesso alle prese con la crescente popolarità dei partiti che in un modo o nell’altro sposano la retorica anti-clima, sminuiscono la crisi climatica o antepongono le ragioni dello status quo a quelle del cambiamento.

In Francia, il Rassemblement Nationale di Marine Le Pen, scettico nei confronti del clima, ha ottenuto il 41,5% alle elezioni presidenziali del 2022. In Germania, l’Alternative fur Deutschland, partito anti-climatico, è secondo solo al partito conservatore CDU/CSU, e controllando i ministeri delle Finanze e dei Trasporti, ha fatto del suo meglio per annacquare la rapida decarbonizzazione del Paese.

In Olanda, il Farmer-Citizen Movement, creato per opporsi alle politiche ambientali che colpiscono gli agricoltori, ha vinto le elezioni e ha messo fine ai 13 anni di Mark Rutte come Primo Ministro. Anche nell’Europa meridionale gli elettori hanno premiato politici che hanno dato priorità alla sicurezza e alla crescita economica rispetto all’azione per il clima, come in Italia.

Corruzione e ritardi

Ogni cambiamento crea vincenti e perdenti. La transizione energetica minaccia interessi ricchi e influenti, che portano a campagne subdole di disinformazione per ritardarla, come, per esempio, è successo recentemente nel Regno Unito nei confronti delle pompe di calore.

Questo mese, DeSmog, ha fatto luce su una campagna di PR commissionata dall’industria del gas e del riscaldamento del Regno Unito, progettata per “scatenare indignazione” contro le pompe di calore.

L’inchiesta di DeSmog è emersa nello stesso mese in cui il consiglio di amministrazione del fondo pensione della Chiesa d’Inghilterra ha annunciato l’intenzione di disinvestire dalle compagnie petrolifere e del gas, ponendo fine a un decennio di tentativi di impegnarsi con loro sul clima.

“L’inversione degli impegni precedenti, in particolare da parte di BP e Shell, ha minato la fiducia nella capacità di transizione del settore”, ha dichiarato il CdA.

Se non ci si può fidare di Shell e BP circa l’adesione agli accordi di Parigi, quanto ci si potrà fidare di altri operatori dei combustibili fossili, che sono molto meno trasparenti e hanno sede in giurisdizioni meno attente al cambiamento climatico del Regno Unito, come Petronas in Brasile o Saudi Aramco in Arabia? O delle compagnie petrolifere e del gas nazionali che non si sono impegnate nemmeno a parole nell’azione per il clima?

L’anno scorso, il Registro Globale dei Combustibili Fossili ha rilevato che i Paesi di tutto il mondo stanno pianificando di produrre nel 2030 una quantità di combustibili fossili più che doppia rispetto a quella compatibile con 1,5 °C di riscaldamento globale.

Conclusioni

Queste sono le sfide principali che la transizione energetica deve affrontare, e possiamo dire che sono sfide da far tremare i polsi.

Tuttavia, con una forte leadership, attenzione, innovazione e risorse, possono essere superate, ha detto Liebreich, che presenterà una visione più ottimistica del perché la transizione potrebbe essere più facile del previsto e che illustreremo in un prossimo articolo.

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