Tagli ai sussidi fossili, più facile a dirsi che a farsi: serve più bisturi che accetta

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Per favorire la transizione energetica si deve guardare all’equità sociale, ridistribuire il reddito e riformare il fisco.

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In linea di principio, tutti, dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) a Legambiente, passando per l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), sono d’accordo sulla necessità di tagliare i sussidi alle fonti energetiche fossili.

Quando però dagli alti principi ci si cala nella realtà, la chiarezza degli intenti inizia a scivolare sul terreno fangoso di interessi contrapposti, in cui si rischia di rimanere impantanati. E in cui i sussidi alle fonti fossili, lungi dal diminuire, riprendono ad aumentare.

Secondo la IEA, le sovvenzioni agli idrocarburi sono infatti cresciute di un terzo nel 2018, schizzando a $427 miliardi nel mondo. Per il FMI, i sussidi alle fossili – compresivi di impatti negativi sull’ambiente – sono stimati a $5.200 miliardi nel 2017, pari al 6,5% del PIL mondiale

L’Italia non fa eccezione: secondo il Ministero dell’Ambiente, i sussidi alle fossili nel settore energia, dove avviene il grosso delle emissioni nocive, sono aumentati nel 2017 di quasi il 10% a 12,7 miliardi di euro, rispetto all’anno prima.

Come si può uscire dal circolo vizioso degli interessi contrapposti che rischia di bloccare la transizione energetica?

Secondo Massimo Nicolazzi, docente di economia delle fonti energetiche all’Università di Torino, bisogna sgombrare il campo da una ipocrisia di fondo: non si può cioè fare finta di non sapere che tagliare i sussidi alle fossili, in assenza di ulteriori accorgimenti, significa solo aumentare le tasse sui carburanti e sui combustibili tradizionali che tutti paghiamo, colpendo di più le persone che meno se lo possono permettere.

Che si tratti di carburanti, combustibili, elettricità o altri prodotti e servizi, “qualunque tassazione o forma di dissuasione virtuosa, che sia una carbon tax o un taglio dei sussidi, fino a quando useremo fonti fossili, si scaricherà prima o dopo, direttamente o indirettamente, sui prezzi al consumo,” ha detto Nicolazzi.

Ciò vuol dire che anche gli eventuali tagli che possono apparire più opportuni e giustificati – come quello, in parte avvenuto, della componente CIP6 in bolletta, ora incorporata nella ASos che comprende anche contributi agli impianti di generazione fossile o tutta una serie di esenzioni sugli oneri di sistema – alla fine rischiano di ripercuotersi non tanto sui produttori di energie fossili bensì sui consumatori, con un aumento dei prezzi.

Una grossa fetta dei sussidi italiani non sono sussidi destinati a petrolieri o produttori di energia fossile, come molti potrebbero pensare, bensì soldi che rimangono nelle tasche del “Signor Mario” che, per esempio, quando va al distributore a fare il pieno, paga sul gasolio un’ accisa inferiore che sulla benzina.

La differenza di accisa fra gasolio e benzina e l’impatto ambientale che tale agevolazione ha, sono fra i principali imputati quando si fanno i conti in tasca ai sussidi per le fossili in Italia. È opportuno però ricordare che – seppur con accise diverse – sia la benzina che il gasolio sono comunque già molto penalizzati nel nostro paese, tramite una tassazione altissima rispetto alla stragrande maggioranza degli altri paesi.

Se si decide di tagliare per esempio lo sgravio sul gasolio, e quindi di levare di tasca quei soldi al Signor Mario e di fargli pagare di più il pieno – già molto costoso – “bisogna dirglielo chiaramente e introdurre misure di compensazione e redistribuzione del reddito,” ha detto Nicolazzi.

È poi necessario usare i proventi di una eventuale carbon tax o le risorse liberate dal taglio dei sussidi per ridurre altre tasse in maniera progressiva e non per fare cassa, ha aggiunto Nicolazzi.

Una posizione simile l’ha espressa anche l’FMI – tradizionalmente non un bastione dell’estremismo ambientalista e poco incline a promuovere nuove tasse – secondo cui la chiave per accendere la transizione energetica è rappresentata proprio da considerazioni di equità sociale.

Nel suo ultimo Fiscal Monitor, il Fondo ritiene infatti che le risorse liberate dal taglio dei sussidi e le entrate generate da una carbon tax debbano essere ridistribuite, ad esempio, alle famiglie a basso reddito, o ai lavoratori e le aziende colpiti in modo sproporzionato dalla transizione, o in ricerca e sviluppo di tecnologie verdi.

Bisogna cioè essere consapevoli che il taglio dei sussidi o l’imposizione di una carbon tax, in assenza di misure di compensazione adeguate, possono risultare molto impopolari e innescare reazioni – come quella dei gilet gialli in Francia – che rischiano di ostacolare la transizione energetica e punire politicamente chi la attua male.

Secondo il Fondo, è possibile evitare che i rincari delle fossili e una carbon tax vengano percepiti e vissuti come una tassa sui poveri a favore dei ricchi.

Le esperienze internazionali suggeriscono che per introdurre con successo queste misure siano necessari alcuni accorgimenti: una legislazione chiara e certa, che permetta ad aziende e famiglie di adattarsi gradualmente; ampie consultazioni con le parti sociali per costruire una posizione condivisa, anche tramite campagne che chiariscano i fatti alla base della transizione e sfatino percezioni errate; un uso trasparente, equo e produttivo del gettito fiscale; e infine misure di assistenza per le famiglie e i settori più vulnerabili.

Secondo il Fondo, in paesi dove le tasse sulle fossili sono già molto alte, come l’Italia, invece di puntare su una carbon tax o un taglio dei sussidi a tappeto, si potrebbe ricorrere a un sistema modulabile di tariffe progressivamente più alte su prodotti e servizi con emissioni di gas serra maggiori della media e, alternativamente, rimborsi gradualmente più accentuati su quelli con emissioni minori della media.

Poiché le fonti rinnovabili sono ancora lontane dal coprire il grosso del fabbisogno per impieghi come il riscaldamento degli edifici, il trasporto merci su strada o i viaggi aerei, bisognerà tagliare i sussidi più col bisturi che con l’accetta. Bisognerà cioè frugare fra le pieghe della miriade di sussidi diretti e indiretti per fare degli interventi “molto mirati,” ha detto Nicolazzi.

Un possibile esempio di intervento col bisturi, secondo Legambiente e il Forum Diseguaglianze Diversità, potrebbe essere l’introduzione di una tassa aeroportuale d’imbarco, calibrata sulla distanza di percorrenza, cui si potrebbe accompagnare l’avvio di una classificazione delle emissioni nocive anche per gli aerei, simile a quella dei veicoli – Euro 4, Euro 5, ecc. – così da creare un incentivo per ammodernare le flotte (qui le proposte fiscali delle due associazioni).

Fra le pieghe dei sussidi italiani alle fossili, si nota poi che i rimborsi sul gasolio per gli autotrasportatori mettono sullo stesso piano i camion Euro 3, Euro 4, Euro 5, ecc., con il paradosso che gli Euro 3 – più inquinanti – ricevono un rimborso maggiore perché consumano di più. Secondo Massimo Santori di NGV Italia, sarebbe auspicabile una rimodulazione dei rimborsi, rendendoli progressivi, per “premiare i mezzi pesanti che consumano meno.”

Sempre nei rivoli delle spese fiscali italiane, secondo Veronica Aneris di Transport & Environment, si trovano i sussidi per l’autotrasporto a metano – un carburante più impattante del gasolio (secondo studi citati dall’associazione) e un gas più climalterante della CO2 se finisce in atmosfera prima di essere bruciato – la cui possibile eliminazione, “a fronte di un basso impatto sociale, libererebbe 670 milioni di euro l’anno”.

Secondo Federchimica, bisognerà stare attenti ai prodotti e servizi essenziali non facilmente sostituibili con alternative verdi. È il caso dell’Iva agevolata sulle bombole di GPL. Queste sono spesso l’unica fonte di energia che i residenti di zone remote e disagiate hanno, e che avrebbero difficoltà a sostituire con sistemi più costosi, anche se molto più sostenibili.

Tagliare i sussidi quindi si può e si deve, ma a condizione che si attuino misure di compensazione e redistribuzione del reddito per garantire i servizi essenziali ai meno abbienti. Per gli altri, la condizione è che all’aumento dei costi per una maggiore e sempre più rapida virtuosità energetica corrisponda una proporzionale redistribuzione del reddito o un alleggerimento del carico fiscale su altri capitoli della spesa pubblica.

Il taglio dei sussidi alle fossili dunque dovrebbe essere inserito in un programma di riforma del sistema fiscale, che dia segnali di prezzo più diretti e trasparenti, in modo che la sostenibilità ambientale vada a braccetto con quella sociale ed economica.

Battere sull’urgenza di tagliare i sussidi alle fossili senza essere chiari sui cambiamenti che la transizione energetica comporta, rischia di farci andare a sbattere contro le resistenze di chi si sentirà vittima di una iniquità ­– poco importa se a fin di bene ambientale – e ci farà perdere ancora più tempo, che non abbiamo.

Più ambiziosi e coraggiosi sono gli obiettivi di lotta alla crisi climatica, maggiore deve essere il coinvolgimento, la compensazione e il rispetto umano di quante più categorie di persone e settori possibili.

Altrimenti la transizione energetica rischia di rimanere incompiuta.

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