I progetti di Carbon capture and storage (Ccs) di Eni finiscono nel mirino di Greenpeace e ReCommon: le due associazioni denunciano l’inefficacia della pratica e accusano il Cane a sei zampe di usarla come “foglia di fico” per continuare a estrarre gas e petrolio.
L’azienda punta molto su questa tecnologia e si prepara a lanciare una nuova società che raggrupperà le attività di Ccs, denunciano i due enti ambientalisti nel rapporto “CCS, l’ennesima falsa promessa di ENI” (link in basso), diffuso lo scorso 6 giugno.
A confermare la centralità di questa tecnologia per la multinazionale è la recente presentazione del Capital Markets Update 2024, in occasione della quale Eni ha illustrato la sua strategia climatica, sostenendo che la Ccs diventerà “una delle piattaforme chiave del portafoglio aziendale orientato alla transizione energetica, sia per la decarbonizzazione delle proprie operazioni che come servizio per la decarbonizzazione di industrie terze” e “leva fondamentale per ridurre le emissioni nette e guidare la transizione energetica”.
Forte di queste premesse, Eni prevede così di aumentare fino al 2027 l’estrazione e la produzione di combustibili fossili, rassicurando i suoi investitori circa i profitti crescenti attesi da queste pratiche.
Il progetto di Eni a Ravenna
In Italia Eni partecipa con Snam in una joint venture per il progetto pilota Ravenna Ccs, che consiste nella realizzazione di una infrastruttura di stoccaggio CO₂ in cui l’anidride carbonica catturata dalla centrale Eni di trattamento di gas di Casalborsetti, una volta liquefatta, venga convogliata verso la piattaforma di Porto Corsini Mare Ovest e infine iniettata nell’omonimo giacimento a gas esaurito, nell’offshore ravennate.
L’avvio della Fase 1 è previsto per il mese di giugno 2024, con la cattura, il trasporto e l’iniezione ai fini dello stoccaggio permanente di 25 mila tonnellate all’anno di CO2. Secondo i promotori, lo sviluppo industriale della Fase 2, dal 2027, consentirà di raggiungere una capacità di stoccaggio di 4 milioni di tonnellate all’anno entro il 2030. Ulteriori espansioni potranno portare i volumi fino a 16 milioni di tonnellate di CO2/anno.
Intanto nel Regno Unito il colosso italiano del gas e del petrolio ha già siglato un accordo multimilionario per HyNet North West, che interessa il comparto industriale di Liverpool, mentre altri progetti potrebbero vedere la luce in Libia, Paesi Bassi, Asia-Pacifico, Mar Mediterraneo e Mare del Nord.
Tra Eni e le due associazioni pende anche una causa che ha avuto il via formalmente lo scorso 19 febbraio: Greenpeace e ReCommon chiedono che l’azienda riveda la propria strategia industriale così che possa ridurre le proprie emissioni di gas serra del 45% entro il 2030, rispetto ai livelli del 2022.
Tutte le falle della Carbon capture
Dell’affidabilità (scarsa) della Ccs come soluzione per l’abbattimento delle emissioni abbiamo ampiamente scritto. In un articolo recente (vedi: Perché “rimuovere” le emissioni di CO2 con la tecnologia è una strada rischiosa) abbiamo evidenziato come la stessa Commissione europea, nelle sue raccomandazioni sulla strategia di carbon management dell’Unione, seppur prevedendola come soluzione abbia sollevato più di una criticità.
Nella comunicazione si legge che “i progetti operativi su larga scala sono limitati in Europa” e che ci sono innumerevoli sfide, tra cui “difficoltà nel creare un business case fattibile, anche a causa del significativo capitale di investimento iniziale richiesto, dell’incertezza sui futuri prezzi della CO2 e della necessità di prestare particolare attenzione all’incontro tra domanda e offerta di prodotti a basse emissioni di carbonio”.
Sempre nel documento si evidenzia che “la rimozione industriale della CO2 comporta costi elevati e grandi fabbisogni energetici per la cattura o forti esigenze di risorse naturali per lo stoccaggio che possono sollevare preoccupazioni sulla sostenibilità, se non adeguatamente affrontate”.
Altri problemi riguardano il consumo di grandi quantità di ammoniaca e altri agenti chimici per la separazione dell’anidride carbonica dagli altri effluenti delle ciminiere, oppure il rischio del rilascio nel sottosuolo e la conseguente “tenuta” geologica dei siti di stoccaggio.
Ricordiamo che la Ccs è nella lista delle tecnologie strategiche del Net Zero Industry Act, i cui progetti godranno di procedure accelerate per le autorizzazioni: Bruxelles stima che bisognerà catturare almeno 50 milioni di tonnellate/anno di CO2 entro il 2030, per poi salire fino a 450 Mt entro il 2050. Di queste, circa 250 milioni di tonnellate saranno stoccate nel sottosuolo e il resto sarà utilizzato nei processi industriali, ad esempio per produrre carburanti sintetici.
Finora però, fanno notare Greenpeace e ReCommon nel report, oltre il 70% della CO₂ sequestrata globalmente negli ultimi anni è stata impiegata per ottenere una maggiore produzione dai giacimenti esauriti in un processo noto come Enhanced Oil Recovery (Eor): questo processo prevede essenzialmente l’iniezione forzata di CO₂ nel sottosuolo per ravvivare la produzione petrolifera in giacimenti in fase di esaurimento che hanno perso la pressione di uscita originaria.
La CO₂, utilizzata in questo modo, non rimane integralmente confinata nel sottosuolo: una parte si mescola al petrolio, fluidificandolo, e torna in superficie. Nel corso di oltre 50 anni di attività sono state iniettate circa 300 milioni di tonnellate di CO₂ e l’80- 90% è stato utilizzato per questa pratica.