Perché “rimuovere” le emissioni di CO2 con la tecnologia è una strada rischiosa

Cosa prevede la comunicazione di Bruxelles sul carbon management: obiettivi al 2040, limiti e incertezze delle diverse soluzioni per catturare e rimuovere l'anidride carbonica.

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Quando ha aperto il dibattito politico su come accelerare il taglio delle emissioni di CO2, la Commissione europea ha fatto una scommessa rischiosa, affidando un ruolo rilevante al cosiddetto “industrial carbon management”, vale a dire alle tecnologie con cui catturare o rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera.

Il 6 febbraio Bruxelles ha pubblicato una raccomandazione per ridurre del 90% le emissioni di CO2 entro il 2040, rispetto ai livelli del 1990, come obiettivo intermedio nel percorso verso il traguardo Net Zero al 2050 (azzeramento delle emissioni nette).

Lo stesso giorno, la Commissione ha presentato una comunicazione per definire una strategia sul carbon management, molto criticata dalle associazioni ambientaliste (e non solo).

Per loro, infatti, è un errore dare spazio a tecnologie come la Carbon Capture and Storage (CCS), che identifica gli impianti per la cattura e lo stoccaggio della CO2 emessa dalle industrie e dalle centrali a gas o carbone, perché sono costose, inefficienti e una “scusa” per continuare a investire nelle fonti fossili.

Perché l’Europa ha bisogno del carbon management?

Il punto, secondo l’esecutivo guidato da Ursula von der Leyen, è che ridurre le emissioni in via diretta – con la graduale eliminazione di gas, carbone e petrolio – non sarà sufficiente per raggiungere i traguardi climatici.

Dovremo, infatti, eliminare le emissioni residue dei settori cosiddetti “hard-to-abate”, come le industrie con elevati consumi di energia (pensiamo a cementifici e acciaierie), dove è più difficile sostituire del tutto l’uso di combustibili fossili.

Inoltre, bisognerà rimuovere una certa quota di CO2 dall’atmosfera per compensare i gas serra rilasciati, ad esempio, dall’agricoltura e dagli allevamenti intensivi.

La Commissione europea stima che bisognerà catturare almeno 50 milioni di tonnellate/anno di CO2 entro il 2030 (equivalenti alle emissioni totali della Svezia nel 2022), per poi salire fino a 450 Mt entro il 2050. Di queste, circa 250 milioni di tonnellate saranno stoccate nel sottosuolo e il resto sarà utilizzato nei processi industriali, ad esempio per produrre carburanti sintetici (e-fuel per l’aviazione) e diversi materiali sempre di origine sintetica.

È una strada in salita: si dovrà sviluppare da zero una vasta rete di impianti e infrastrutture per il trasporto e lo stoccaggio della CO2. Si parla di investimenti per diversi miliardi di euro con la necessità di trovare adeguate risorse finanziarie.

Ricordiamo che la CCS è nella lista delle tecnologie strategiche del Net Zero Industry Act, i cui progetti avranno procedure accelerate per le autorizzazioni. Ma per ora la Commissione non ha creato nuovi fondi specifici per supportare le tecnologie Net Zero.

Le opzioni in gioco

Le possibili strade del carbon management sono diverse: si può ricorrere ai bacini naturali di assorbimento della CO2, con interventi di riforestazione, tutela degli ecosistemi e buone pratiche di uso dei suoli, come il carbon farming (metodi agricoli che consentono di stoccare anidride carbonica nei terreni e nelle piante).

Poi entrano in gioco le tecnologie. Oltre alla citata CCS e alla sua variante con le biomasse (BECCS: Bioenergy with Carbon Capture and Storage), si parla spesso della Direct Air Capure (DAC), che in pratica prevede di “succhiare” la CO2 direttamente dall’aria per poi immagazzinarla in depositi geologici.

È bene precisare che esiste un’altra variante dell’acronimo CCS, CCUS (Carbon Capture Utilization and Storage), che si riferisce alla possibilità di usare l’anidride carbonica, una volta catturata, in alcuni procedimenti industriali, come la già citata produzione di carburanti sintetici.

Troppe incertezze su costi e rendimenti

La stessa Commissione europea non nasconde le evidenti difficoltà di puntare sul carbon management.

Nella comunicazione si legge che “i progetti operativi su larga scala sono limitati in Europa” e che ci sono innumerevoli sfide, tra cui “difficoltà nel creare un business case fattibile, anche a causa del significativo capitale di investimento iniziale richiesto, dell’incertezza sui futuri prezzi della CO2 e della necessità di prestare particolare attenzione all’incontro tra domanda e offerta di prodotti a basse emissioni di carbonio”.

Sempre nel documento si evidenzia che “la rimozione industriale della CO2 comporta costi elevati e grandi fabbisogni energetici [per la DAC] o forti esigenze di risorse naturali [per la BECCS] che possono sollevare preoccupazioni sulla sostenibilità, se non adeguatamente affrontate”.

Si precisa poi che per alcuni tipi di rimozione, come la cattura e lo stoccaggio della CO2 atmosferica, “i costi futuri stimati vanno da 122 a 539 euro per tonnellata di CO2”, quindi ben sopra l’attuale prezzo dell’anidride carbonica sul mercato europeo ETS (Emissions Trading Scheme), che in queste settimane è sceso intorno ai 60 €/ton.

Netto il giudizio negativo sulla strategia Ue di Carbon Market Watch, organizzazione indipendente no-profit basata a Bruxelles. “Uno dei principali problemi che affligge sia l’obiettivo del 2040 che la strategia di gestione della CO2 – si legge in una nota – è la confusione e la fusione di diversi concetti con diversi benefici climatici, come lo stoccaggio temporaneo e permanente dell’anidride carbonica, lo stoccaggio e l’uso della CO2, nonché la riduzione e l’eliminazione delle emissioni”.

In particolare, le tecnologie per rimuovere la CO2 “sono nella loro fase iniziale e non è chiaro se saranno mai implementabili in modo sostenibile nella scala prevista, sia per controbilanciare le ultime emissioni rimanenti sia per rimuovere la CO2 accumulata dall’aria”.

Oltre ai costi elevati, sottolinea lo Ieefa (Institute for Energy Economics and Financial Analysis, basato negli Usa), “c’è anche un punto interrogativo sull’efficacia delle tecnologie per la cattura della CO2 in generale”, perché “la maggior parte dei progetti fino ad oggi è in impianti dimostrativi su piccola scala, che generalmente hanno reso molto meno rispetto ai tassi di cattura attesi”.

Il caso di Drax in Gran Bretagna

Di recente, sempre in tema delle difficoltà per questo tipo di tecnologie, abbiamo dedicato un articolo al progetto di applicare la BECCS alla centrale elettrica a biomasse di Drax in Gran Bretagna.

Drax, abbiamo scritto, ritiene che usare biomasse per produrre elettricità assicuri un bilancio neutro in termini di emissioni totali di CO2, perché le emissioni dell’impianto sono compensate dall’anidride carbonica assorbita dalle nuove piante che cresceranno al posto di quelle tagliate e bruciate. La critica principale su questo punto è che serviranno decenni per riassorbire la CO2 emessa.

Se poi si aggiunge la tecnologia CCS per catturare le emissioni della centrale elettrica, è la tesi dei suoi promotori, si può arrivare a un bilancio negativo di emissioni: l’impianto sarebbe in grado di rimuovere più CO2 dall’atmosfera in confronto a quella emessa.

Tuttavia, i costi sono elevatissimi e ci sono tante incognite sulla reale efficacia delle tecnologie CCS, che a loro volta richiedono molta energia per funzionare; nel caso della BECCS, occorre anche dimostrare la sostenibilità ambientale delle biomasse utilizzate, certificando la loro provenienza da territori dove le foreste sono gestite in modo responsabile, evitando tagli indiscriminati di alberi.

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