Se il TAP non serve

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Il processo di decarbonizzazione e la già grande capacità di importazione dell’Italia, al momento sottosfruttata, pongono un interrogativo chiave sul bisogno reale di nuove infrastrutture per l’importazione di gas.

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E’ sorprendente la mancanza dal dibattito sul gasdotto TAP di un’analisi basata sui fatti e sulle reali dinamiche economiche, energetiche e geopolitiche che determinano gli effetti e l’utilità o meno del progetto. L’ultima fantasia populista di Matteo Salvini è che con il TAP l’energia costerà il 10% in meno.

Questa si aggiunge ai motivi ricorrenti contro o a favore del progetto, dalle preoccupazioni circa la destinazione finale del gasdotto al disegno di una strategia di sicurezza energetica tutta da verificare. Tutto ciò oscura in realtà gli aspetti determinanti del TAP.

Manca inoltre un inquadramento della scelta all’interno di una visione strategica sul futuro energetico dell’Italia e dell’Europa in un momento di profonda trasformazione tecnologica e della consapevolezza che dobbiamo accelerare il processo di decarbonizzazione per limitare gli effetti destabilizzanti del cambiamento climatico in corso (vedi anche QualEnergia.it, Ma almeno ci serve il gasdotto TAP?, ndr).

Innanzitutto occorre riscontrare che la domanda di gas, sia in Italia che in Europa, è in calo strutturale. Il livello attuale dei consumi di gas in Italia è sceso a quello dei primi anni 2000 in maniera crescente grazie al contributo fondamentale dell’efficienza energetica e delle rinnovabili che sostituiscono il consumo e le importazioni di gas, e in generale quello dei combustibili fossili, nel settore termico e in quello elettrico.

L’Agenzia Internazionale dell’Energia calcola che l’efficienza energetica è stato il fattore che più ha contribuito in Europa, dunque di più delle varie congiunture economiche, a ridurre le importazioni di gas dal 2000 al 2015. Questi dati sono confermati da diversi studi di impatto della Commissione Europea, la quale calcola inoltre che ogni 1% guadagnato in efficienza energetica provoca un risparmio del 2,5% sulle importazioni di gas. L’impiego delle rinnovabili dal 2005 al 2015 ha invece permesso agli italiani di ridurre i consumi di combustibili fossili del 12%.

Nonostante normali fluttuazioni annuali, l’aspettativa predominante è che il calo continuerà trainato dalla sempre più profonda decarbonizzazione dell’economia. La Strategia Energetica Nazionale (SEN), varata alla fine 2017, stima un calo dei consumi di gas del 10% al 2030 rispetto il 2015, contribuendo così alla riduzione attesa della dipendenza energetica da importazioni di oltre dodici punti percentuali (da 76,5% nel 2015 a 63,8% nel 2030). Tutto ciò nonostante la progressiva chiusura delle centrali a carbone entro il 2025.

I dati della Commissione Europea confermano questo trend: il raggiungimento dei nuovi target europei al 2030 del 32% di energie rinnovabili e del 32,5% di efficienza energetica provocherebbe un taglio netto delle importazioni di gas in Europa equivalente alle importazioni annuali dell’Italia (circa 70 miliardi di metri cubi), con un risparmio per cittadini e imprese di oltre 10 miliardi di euro l’anno. Questi dati prendono in considerazione il calo atteso della produzione di gas interno all’Europa, soprattutto nei Paesi Bassi, che sarà così sovra-compensato dall’utilizzo sempre maggiore di rinnovabili ed efficienza energetica.

Queste sono dunque da considerarsi dirette concorrenti del gas. Il processo di decarbonizzazione e la già grande capacità di importazione dell’Italia, al momento sottosfruttata, pongono un interrogativo chiave sul bisogno reale di nuove infrastrutture per l’importazione di gas.

Il calo dei consumi di gas mette in questione l’effettiva utilità di nuovi gasdotti e rigassificatori che rischiano così di rimanere sottosfruttati e diventare investimenti non ammortizzabili. E’ difficile capire come i flussi di importazioni attesi per il TAP, stimati a 8,8 miliardi di metri cubi e legati a un contratto di fornitura dalle condizioni ignote per i prossimi 25 anni, si realizzeranno in un mercato in calo, con infrastrutture già sottoutilizzate e con prezzi potenzialmente non competitivi.

Infatti già oggi la capacità di importazione dell’Italia, di oltre 130 miliardi di metri cubi, è sfruttata in media per solo il 50%. I flussi attesi del TAP rischiano così di diventare una fantasia come anche la promessa di nuove importazioni di gas liquido dagli Stati Uniti promessa dal Presidente della Commissione Europea Juncker al Presidente americano Trump durante la sua ultima visita a Washington.

Guardando ai prezzi, studi dell’Università di Oxford mostrano come il gas del Mar Caspio rischia di non essere competitivo sui mercati europei rispetto agli approvvigionamenti esistenti fin tanto che i prezzi del gas russo, e la capacità di Gazprom di reagire alla nuova concorrenza, risultano più bassi rispetto ai prezzi di importazioni che l’Italia dovrebbe sostenere attraverso il TAP.

I risparmi in bolletta promessi da Salvini rimarranno una fantasia. A questa sfavorevole situazione economica vanno aggiunti importanti fattori geopolitici che potrebbero limitare l’effettivo sviluppo delle risorse caspiche e il loro trasporto, come la disputa aperta sulla divisione delle acque territoriali del Mar Caspio tra Azerbaijan, Iran, Russia, Kazakistan e Turkmenistan, e il trasporto del gas attraverso la nuova Turchia di Erdogan.

Una strategia che punta a diversificare le rotte da un regime autoritario illiberale (Russia) e che promette dipendenza (non assicurata per i motivi di cui sopra) da fornitori e paesi di passaggio dalle credenziali altrettanto autoritarie e illiberali (Azerbaijan e Turchia) pone dei seri interrogativi sulla reale effettività della strategia e sulla credibilità europea.

In un momento di profonda trasformazione tecnologica, di crisi del multilateralismo e dei valori liberali europei e della consapevolezza di dover agire più in fretta sul fronte del cambiamento climatico occorre un ripensamento profondo di questa strategia. Il concetto di “diversificazione” deve essere allora ripensato alla luce sia di soluzioni infrastrutturali alternative, dando priorità a quelle dai benefici più alti come l’efficienza energetica e le rinnovabili, sia delle nuove relazioni internazionali che vogliamo e dobbiamo costruire nel ventunesimo secolo senza sacrificare i valori fondativi europei.

Il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi di limitare l’aumento di temperatura media globale ben al di sotto dei 2 gradi con sforzi di rimanere entro l’1,5 implica che il sistema energetico europeo deve raggiungere “zero emissioni nette” entro il 2050.

Garantire la sicurezza di un tale sistema è possibile con le tecnologie già a disposizione, come i sistemi di gestione intelligente della domanda, le smart grids, le interconnessioni e i sistemi di stoccaggio. Il problema non è tecnologico ma politico: dobbiamo fare di più per schierare le nuove tecnologie su larga scala attraverso nuove regole e nuovi investimenti.

Il mito del gas come “fonte fossile pulita”, per le sue minori emissioni rispetto al carbone, ha creato la percezione che ne possiamo disporre a piacimento senza preoccuparci dei suoi impatti climatici. Il gas è responsabile del 20% delle emissioni globali di CO2 del settore energetico e, se paragonato agli obiettivi di Parigi e alle sue conseguenze ambientali, è una fonte fossile ad alte emissioni perché senza una sua progressiva dismissione non sarà possibile raggiungere gli obiettivi e garantire la sicurezza e la prosperità di cittadini e imprese.

L’idea del gas come “fonte di transizione” o “ponte” va allora pensata all’interno degli obiettivi di Parigi e del sistema energetico del futuro che vogliamo costruire. Le infrastrutture a gas esistenti possono contribuire in modo positivo alla sicurezza e flessibilità del sistema energetico attuale fin tanto che le nuove tecnologie non siano dispiegate su larga scala. Ma è altrettanto chiaro che non vi è più spazio per nuove infrastrutture fossili se vogliamo seriamente limitare il cambiamento climatico a un livello gestibile.

Una delle lezione più importanti che emerge dal caso TAP è che prima di investire ingente capitale politico ed economico in un nuovo progetto di natura fossile occorre una seria e attenta valutazione dei costi e dei benefici alla luce degli obiettivi di Parigi e delle alternative non fossili che già oggi non solo offrono gli stessi servizi di sicurezza e flessibilità ma sono fonte di lavoro e crescita locali.

Per una decisione definitiva sul futuro del progetto, considerato lo stadio dei lavori completati al 70% e l’accordo politico tra Italia, Albania e Grecia, occorre un’accurata e trasparente valutazione dei costi e dei benefici della cancellazione del progetto.

I costi reali per i cittadini devono essere bilanciati dai benefici di breve, medio e lungo periodo derivanti dal risparmio generato dalle mancate importazioni, dagli investimenti nelle alternative pulite e i conseguenti benefici occupazionali e di crescita e dalla riduzione delle emissioni. I dati del Ministero dello Sviluppo Economico parlano chiaro: le misure di efficienza energetica attuate tra il 2005 e il 2017 hanno generato risparmi per 3,5 miliardi di euro dall’importazioni di fonti fossili ed evitato l’emissione di 34,9 milioni di tonnellate di CO2. A livello geopolitico e diplomatico, occorre un ripensamento delle relazioni internazionali a favore di scelte in linea con i trattati internazionali e i valori fondativi e gli interessi dell’Italia e dell’Europa in un clima politico e ambientale in profondo cambiamento.

(Articolo già pubblicato su La Stampa il 13 agosto 2018, ripubblicato su QualEnergia.it su segnalazione dell’autore)

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