Il paradosso della finanza green: i Paesi poveri spendono più per i debiti che per il clima

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Mentre i Paesi ricchi spendono più per militarizzare i confini che per aiutare le economie emergenti a contrastare il cambiamento climatico. Due documenti da leggere alla vigilia della CoP 26.

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I Paesi poveri spendono cinque volte più denaro per ripagare i debiti che per affrontare la crisi climatica.

Mentre i Paesi maggiormente responsabili delle emissioni globali di CO2, spendono due volte più per chiudere i confini ai migranti che per finanziare misure contro il cambiamento climatico.

Questo quadro paradossale emerge da due documenti, pubblicati dalla campagna internazionale Jubilee Debt Campaign e dal Transnational Institute, istituto internazionale di ricerca e consulenza impegnato su diversi temi (equità, democrazia, sostenibilità ambientale).

Sono dati che la CoP 26 dovrebbe valutare con la massima urgenza e attenzione, perché evidenziano quanto siano forti le contraddizioni delle attuali politiche finalizzate a limitare il surriscaldamento globale.

Alla Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, dal 31 ottobre al 12 novembre a Glasgow, si arriva con un forte ritardo della finanza verde: le economie più ricche e industrializzate avevano promesso, nel 2009, di aiutare le economie emergenti con 100 miliardi di $ ogni anno da investire in fonti rinnovabili, efficienza energetica, tutela degli ecosistemi a rischio, progetti di adattamento al cambiamento climatico. Ma questa cifra, se tutto andrà bene, sarà raggiunta solo nel 2023, anziché nel 2020 come stabilito anni fa.

Senza contare che si è più lontani da questi 100 miliardi di quanto facciano pensare le cifre ufficiali.

Nel 2019 (fonte Oecd), la finanza climatica è ammontata a circa 80 miliardi di $, ma secondo i calcoli Oxfam il peso reale degli aiuti non superava metà di quanto dichiarato dai Paesi avanzati, perché la maggior parte del sostegno continua a provenire da prestiti anziché sovvenzioni e perché spesso i governi sovrastimano questi aiuti.

Difatti, secondo la Jubilee Debt Campaign, per dare una svolta alle politiche internazionali per il clima, non basta aumentare il volume della finanza green, ma bisogna cancellare il debito e usare sovvenzioni dirette al posto dei prestiti.

Altrimenti, le economie in via di sviluppo saranno sempre più esposte agli impatti devastanti dei cambiamenti climatici e degli eventi estremi: ondate di calore, siccità, alluvioni, tempeste, la cui intensità e frequenza è in aumento.

La transizione energetica-ecologica richiede strategie di adattamento e mitigazione su vasta scala, che i Paesi poveri da soli non sono in grado di sostenere.

Secondo le stime della Jubilee Debt Campaign, basate sui piani NDC dei singoli Paesi (Nationally Determined Contributions), 34 Paesi in via di sviluppo nel 2021 spenderanno quasi 30 miliardi di $ per ripagare i debiti, oltre il quintuplo della spesa annuale prevista (5,4 miliardi) per attuare misure di adattamento ai cambiamenti climatici.

E nel 2025, quegli stessi 34 Paesi spenderanno quasi 38 miliardi di $ in debiti, sette volte più delle risorse impiegate per le azioni di adattamento al clima.

Un altro problema, oltre al peso del debito, è quello che il Transnational Institute chiama “Climate Wall”, letteralmente “muro del clima”, con riferimento alle politiche di controllo e chiusura dei confini nazionali, come strumento di difesa dalle migrazioni.

Sette Nazioni (Usa, UK, Canada, Giappone, Australia, Francia, Germania), responsabili complessivamente del 48% delle emissioni storiche di CO2, tra 2013 e 2018 hanno speso circa 33 miliardi di $ per proteggere e militarizzare i loro confini, oltre il doppio dei 14,4 miliardi dedicati alla finanza climatica.

Il punto è che aumentare gli aiuti finanziari alle economie emergenti e più esposte ai rischi climatici, potrebbe consentire a quelle economie di risollevarsi e di ridurre i flussi delle migrazioni.

Sempre più spesso, infatti, le persone sono costrette a migrare, ad esempio dal Centro America verso gli Stati Uniti o da Africa e Medio Oriente verso il continente europeo, a causa di condizioni ambientali insostenibili e di eventi meteorologici estremi, come siccità prolungata, desertificazione, inondazioni, tornadi.

Con tutto ciò che consegue: perdita di lavoro e attività economiche, maggiori rischi sanitari, incremento dei conflitti locali per la gestione delle poche risorse disponibili.

Appare evidente che clima, finanza e geopolitica sono temi strettamente connessi e che se la CoP 26 ignorerà queste connessioni rischierà di essere un altro fiasco.

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