Il governo francese prevede che i progetti per le sue nuove centrali nucleari saranno presentati intorno al 2023, con l’obiettivo di far entrare in funzione i reattori di nuova generazione nel 2035-37.
Lo ha dichiarato nei giorni scorsi il ministro dell’Ambiente transalpino, Berangere Abba, al quotidiano Le Figaro.
I nuovi impianti sarebbero dotati di reattori di tecnologia EPR2, cioè versioni migliorate dell’EPR dell’utility EDF, che ha registrato anni di ritardi e miliardi di euro di costi in eccesso presso le centrali appena completate o ancora in costruzione in Francia e Finlandia.
EDF ha già inviato una proposta al governo per costruire sei reattori EPR2 per un costo totale di circa 50 miliardi di euro, riferisce Le Figaro.
Parigi aveva detto che non avrebbe avviato alcun nuovo progetto di reattore EPR di terza generazione fino a quando la centrale nucleare a Flamanville, nel nord-ovest della Francia, non fosse stata completata. Al momento il pieno di combustibile nucleare a Flamanville dovrebbe essere completato entro fine 2022, con i primi MWh immessi in rete nel 2023, secondo EDF.
Ma il presidente francese, Emmanuel Macron, che alle prossime elezioni presidenziali di aprile probabilmente cercherà un secondo mandato, ha detto a novembre che la Francia avrebbe costruito nuovi reattori nucleari, per ridurre la propria dipendenza dalle forniture estere di energia, soddisfacendo gli obiettivi climatici e stabilizzando i prezzi.
Il nucleare in Italia e Francia
Anche ammettendo che la scelta francese possa essere comprensibile nella prospettiva storica di un paese che genera il 70% circa della propria energia elettrica ancora da centrali nucleari costruite alcuni decenni fa, la stessa scelta risulterebbe molto discutibile per paesi come l’Italia, che non costruisce il nucleare da decenni e che ha a disposizione carburanti naturali come il sole in misura ben maggiore della Francia.
Anche volendo mettere da parte per un attimo la questione ancora del tutto irrisolta di come e dove sistemare il carburante nucleare esausto, sono proprio i tempi e i costi dell’atomo che mal si sposano con gli obiettivi di decarbonizzazione.
Tanto per dare un’idea, nell’Unione Europea gli impianti nucleari esistenti hanno bisogno di 50 miliardi di euro di investimenti fino al 2030, mentre la prossima generazione di reattori richiederebbe 500 miliardi di euro da qui al 2050, cioè un investimento “colossale”, secondo quanto ha affermato lo stesso Thierry Breton, da fine 2019 commissario europeo per il mercato interno e precedentemente ministro dell’Economia francese, al Journal Du Dimanche.
Parlando delle date-obiettivo del 2035-37 annunciate per l’allaccio dei nuovi reattori nucleari alla rete, vale la pena guardare ad un annuncio simile fatto nel 2008, dagli allora presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, e presidente francese, Nicolas Sarközy.
I due leader firmarono un memorandum che prevedeva la costruzione di quattro reattori EPR, che si sarebbero dovuti aggiungere agli unici due già allora in costruzione, quello in Finlandia a Olkiluoto e il francese a Flamanville.
Delle centrali italiane annunciate nel 2008 non se ne fece più nulla. Delle altre due allora già in costruzione, quella di Olkiluoto ha avviato le sue prime due unità nel 1979 e nel 1982, mentre la terza, iniziata nel 2005 con una data di avvio prevista per il 2009, è stata caratterizzata da una serie di ritardi e dal quadruplicarsi dei costi che ne hanno impedito il completamento e la messa in esercizio fino allo scorso dicembre, con un ritardo di 12 anni.
Non è andata meglio a Flamanville, il cui cantiere è gestito da EDF e i cui costi di costruzione sono lievitati fino al 700%, tenendo conto anche dei costi finanziari, come valutati dalla Corte Des Compts nel 2020. (CdC, La filière EPR). I primi due reattori di Flamanville sono entrati in servizio nel 1986 e 1987, mentre un terzo reattore, la cui costruzione è iniziata nel 2007 con allaccio originariamente previsto nel 2012, non inizierà a produrre appunto fino ad almeno il 2023, con un ritardo di 11 anni sulla tabella di marcia prevista.
L’atomo nel Regno Unito
Anche in situazioni in cui i tempi previsti per la costruzione di nuove centrali nucleari sono, al momento, rispettati, permangono problemi di costi e convenienza, come nel caso della centrale di Hinkley Point, in Gran Bretagna, ora di proprietà sempre della francese EDF e della cinese China General Nuclear Power Group.
Nel 2016, quando EDF Energy decise di procedere con la costruzione della centrale, comunicò che ci sarebbero voluti 10 anni, e oggi, che ne sono passati cinque, è stato completato circa il 49% dei lavori, quindi appunto la metà circa, sostanzialmente nei tempi della tabella di marcia.
Dal punto di vista dei costi, quando Hinkley fu approvata, EDF lì stimò a 18 miliardi di sterline, mentre oggi l’azienda calcola un conto finale più vicino a 23 miliardi di sterline, con un incremento di quasi il 28%.
Ma la parte più problematica del progetto potrebbe riguardare l’accordo a prezzo fisso che il consorzio franco-cinese spuntò nel 2016 dal governo britannico: si prevede che per 35 anni l’elettricità di Hinkley sarà pagata a un cosiddetto “strike price” fissato all’epoca in 92,50 sterline per MWh, indicizzato all’inflazione, che oggi è quindi lievitato a 106 sterline al MWh.
Nel 2016, il prezzo dell’elettricità prodotta dai parchi eolici offshore britannici era ben oltre le 120 sterline al MWh. Ma, nel frattempo, i costi dell’eolico sono scesi precipitosamente. Oggi i nuovi parchi eolici mettono in rete a circa 50 sterline al MWh, cioè a molto meno della metà del prezzo dell’energia nucleare di Hinkley.
Non esattamente un buon affare per i consumatori britannici, probabilmente, anche se, con il recente rincaro del gas a livelli altissimi un po’ in tutta Europa e prezzi dell’elettricità altrettanto alti, il costo dell’energia nucleare della centrale potrebbe rivelarsi meno caro di quanto sembri ora, soprattutto se il caro-gas dovesse diventare più strutturale e non abbastanza rinnovabili dovessero essere disponibili sul mercato.
Il “nuovo” piccolo nucleare
Ma anche i tanto attesi piccoli reattori nucleari modulari (Smr), di cui si sente spesso parlare, non rappresentano una soluzione con delle buone probabilità di successo.
Contrariamente alle apparenze, quella degli Smr non è una nuova tecnologia. I suoi primi esempi risalgono alla metà degli anni ’50, quando si iniziarono a costruire piccoli impianti atomici per sottomarini nucleari.
Nei 70 anni circa dalla messa in funzione del primo Smr, sono state progettate, sviluppate e, raramente, costruite 57 varianti di 18 tipi di reattori, nessuno dei quali può essere considerato dominante e la maggior parte dei quali sta invecchiando senza che ne vengano costruiti di nuovi per sostituirli.
Questi reattori dovrebbero essere, nelle speranze, più sicuri, più veloci da costruire e più a buon mercato grazie alle economie di scala di produzioni centralizzate. Ma così non è, secondo Michael Barnard, responsabile strategie di TFIE Strategy e Agora Energy Technologies.
Senza soffermarsi sulle questioni legate alla sicurezza che un proliferare di piccole centrali nucleari porrebbe, è ancora una volta sul fronte economico che i conti non tornano.
Affinché si materializzino delle economie di scala, un impianto di produzione di Smr deve poter costruire centinaia di unità e poter contare su un mercato futuro di altre centinaia. Il settore è invece caratterizzato appunto da almeno 18 diversi tipi di tecnologie e da molti progetti concorrenti all’interno di questi tipi.
Negli ultimi 70 anni non si è cioè concretizzata una singola tecnologia capace di dominare o primeggiare nel settore. Per evidenti motivi anche geostrategici e di sicurezza nazionale, ogni paese impegnato nella ricerca e realizzazione di Smr ha infatti le sue tecnologie preferite e le sue aziende da sostenere.
Senza produzioni in scala, non si ottiene nessuna riduzione dei costi. Senza contare che l’efficienza energetica di questi sistemi è direttamente proporzionale alla loro taglia: più piccolo il sistema, minore la sua efficienza.
Le unità di generazione termica, infatti, diventano più efficienti man mano che la loro taglia aumenta, fino a un certo limite. Questo è il motivo per cui moltissime centrali a carbone o nucleari hanno caldaie o reattori da circa 1 GW. Le efficienze dei piccoli reattori nucleari modulari sarebbero altrettanto ridotte.
E con ciò risulta depotenziato anche l’appeal energetico che tale soluzione in teoria dovrebbe assicurare. L’obiettivo dell’americana Nu Scale, per esempio, è far scendere nei prossimi anni il suo costo di generazione a “solo” il doppio dell’attuale costo all’ingrosso della generazione eolica e solare.
Che senso ha oggi il nucleare?
La quota di elettricità nucleare nel mondo è in continua diminuzione, dal 17,5% nel 1996 al 10,1% del 2020, a causa dei tempi lunghissimi di sviluppo e dei sovraccosti, che hanno reso il nucleare sempre meno vantaggioso rispetto a fotovoltaico ed eolico, che hanno invece conquistato grandi quote di mercato, come ricordato in un altro articolo.
A fronte di un aumento medio dei costi del 33% per la costruzione e la manutenzione degli impianti atomici nell’ultimo decennio, il costo per le infrastrutture fotovoltaiche è diminuito del 90% e quello dell’eolico del 70% nello stesso periodo.
Non c’è da sorprendessi, dunque, se i nuovi investimenti in elettricità rinnovabile hanno superato i 256 miliardi di euro nel 2020, un valore 17 volte superiore agli impegni di investimento globali nel nucleare.
Alla luce di tutto ciò, che senso ha in Italia continuare a prospettare il nucleare di nuova o vecchia generazione come una soluzione minimamente efficace, efficiente e praticabile nei tempi e nei costi compatibili con la decarbonizzazione?