La lobby della carne americana, ecco gli altri sabotatori delle politiche climatiche

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Uno studio evidenzia come i grandi allevatori americani, così come la lobby del petrolio, blocchino l'azione sul clima.

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Probabilmente molti già sanno che il settore dei combustibili fossili ha speso molti milioni di dollari per cercare di seminare dubbi sul cambiamento climatico e sul ruolo che le attività petrolifere hanno avuto nel determinarlo.

Ma forse non moltissimi sanno che anche i grandi produttori americani di carne e latticini fanno la stessa cosa.

Secondo uno studio della New York University, queste aziende hanno speso milioni di dollari per fare azioni di lobby contro le politiche climatiche e finanziare dubbie ricerche che cercano di offuscare i legami tra gli allevamenti e l’emergenza climatica.

I dati indicano che circa il 14% delle emissioni globali di gas serra proviene dalla produzione di carne e latticini.

“Le aziende statunitensi del settore bovino e lattiero-caseario sembrano agire collettivamente in modi simili all’industria dei combustibili fossili, alla guida di un ampio contro-movimento rispetto al cambiamento climatico”, hanno scritto gli autori dello studio, pubblicato sulla rivista Climatic Change.

“La gente dovrebbe essere arrabbiata”, ha detto uno degli autori, Jennifer Jacquet. “E dovremmo costruire un sistema in cui possiamo prevenire questo tipo di influenza”.

Paragonare l’industria della carne e dei latticini a quella dei combustibili fossili non è facile, anche se questi due settori hanno lavorato in tandem per anni per indebolire la politica climatica.

Per esempio, nel 2009, Tyson e altre aziende americane del settore carne si sono sentite toccate nel vivo quando è stato intavolato l’American Clean Energy and Security Act, noto anche come proposta di legge Waxman-Markey, che avrebbe stabilito un sistema di quote di emissionicap-and-trade”.

Gli allevatori hanno lavorato fianco a fianco con i petrolieri per fermare la proposta. Se fosse passata, sarebbe stata la prima legge del Congresso americano a prendere il toro delle emissioni per le corna. Ma non ha mai superato la Camera.

Non è una sorpresa che le associazioni commerciali della carne e dei latticini facciano pressioni per cose come l’accesso ai terreni pubblici di proprietà federale per il pascolo del bestiame o per regolamenti di gestione del letame favorevoli all’industria. Ma come gli autori hanno rilevato, “sono stati coinvolti nel bloccare la politica climatica che avrebbe limitato la produzione”.

Sei dei grandi gruppi statunitensi – la National Cattlemen’s Beef Association, il National Pork Producers Council, il North American Meat Institute, il National Chicken Council, l’International Dairy Foods Association e l’American Farm Bureau Federation – hanno speso complessivamente circa 200 milioni di dollari in attività di lobby dal 2000. E hanno fatto pressioni ogni anno contro politiche climatiche come il cap-and-trade, il Clean Air Act, e i regolamenti che richiederebbero alle aziende agricole di segnalare le emissioni.

Le spese lobbistiche del settore carne potrebbero sembrare poca cosa rispetto a quelle del settore petrolifero. Il gigante del greggio Exxon, per esempio, ha speso da solo oltre 240 milioni di dollari nello stesso periodo, cioè più dell’intero settore bovino-caseario praticamente. L’investimento degli allevatori assume però un altro aspetto se lo si rapporta ai bilanci del settore carne e latticini. Il produttore di carne Tyson, per esempio, ha speso il 33% in più di Exxon come quota dei propri ricavi dedicata all’attività di lobby.

Queste cifre si riferiscono alla spesa totale delle aziende della carne per fare lobby, non solo a quella specifica per il clima. Ma anche le politiche che non riguardano esplicitamente il clima – come gli incentivi alle colture o le decisioni sull’uso della terra – possono guidare le emissioni nocive.

Lo studio ha anche scoperto che le grandi aziende statunitensi della carne hanno speso milioni in campagne politiche, in genere per sostenere candidati repubblicani.

Anche in questo caso, gli allevatori spendono molto rispetto alle loro entrate. Dal 2000, Exxon ha investito circa 17 milioni di dollari in campagne politiche federali statunitensi, rispetto ai 3,2 milioni di dollari di Tyson. “Ma come quota del fatturato nel periodo, Tyson ha speso il doppio di Exxon in campagne politiche”, ha notato lo studio.

A volte, i grandi allevatori hanno finanziato anche candidati democratici. Durante la campagna presidenziale del 1992, Tyson è stata uno dei principali sostenitori di Bill Clinton, l’allora governatore  dell’Arkansas, stato natale dell’ex presidente e sede della Tyson.

Anche le industrie della carne e dei latticini finanziano i loro esperti accademici, che poi pubblicano ricerche che minimizzano o negano il legame causale tra gli allevamenti e il cambiamento climatico.

La ricerca finanziata dall’industria non è sempre necessariamente fuorviante. Ma è certamente lecito interrogarsi sull’integrità della ricerca se questa finisce per promuova gli obiettivi dell’industria stessa.

Come ha riportato Undark, ci si potrebbe imbattere in un libro bianco che dipinge un quadro speranzoso delle emissioni dell’industria del bestiame, solo per poi rendersi conto che i co-autori gestiscono gruppi lattiero-caseari o hanno ricevuto finanziamenti dal settore del bestiame.

Il nuovo studio della NYU fornisce altri esempi di come la ricerca finanziata dal settore carne cerchi di sminuire i costi ambientali dell’allevamento, sottolineando che le sue emissioni sono poca cosa rispetto a quelle di altri settori, come il trasporto, invece di riconoscere che l’agricoltura animale causa quasi il 15% delle emissioni di gas serra, contribuendo quindi significativamente al cambiamento climatico.

Non solo, la ricerca della NYU nota che se la Food and Agriculture Organization avesse ragione nel prevedere che il consumo di carne aumenterà del 73% entro il 2050, le emissioni di alcune aziende di carne e latticini potrebbero superare le emissioni di diverse aziende di combustibili fossili.

Ciò significa che chi ha a cuore il clima deve fare sul serio nel richiamare alle loro responsabilità anche “Big Meat” e “Big Dairy” cioè i due “grandi fratelli” di carne e di latte, e non solo ”Big Oil”, come hanno fatto per anni.

“Bisognerà reimmaginare la carne e i latticini“, ha detto Jacquet. Che questo comporti una riduzione del consumo di carne o un passaggio totale a carne e latticini di origine vegetale o coltivati in laboratorio, una cosa è certa: “Dato quello che sappiamo sul cambiamento climatico, sembra chiaro che fare come nulla fosse non è la risposta”, ha concluso Jacquet.

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