La “lezione” del lockdown per il futuro del clima: intervista a Luca Mercalli

  • 15 Maggio 2020

Tanti i temi affrontati, dall’andamento delle emissioni di CO2 al tempo che rimane a disposizione per evitare il disastro climatico, passando per il ruolo di politica e finanza, oltre che della divulgazione scientifica.

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Nei mesi di lockdown causato dall’emergenza coronavirus, si sono accavallate molte domande che investono il presente e il futuro del clima, e tante incertezze sulle politiche da attuare nel post-Covid per combattere il cambiamento climatico, in modo da evitare un eccessivo surriscaldamento terrestre.

Dopo un primo approfondimento nell’articolo La CO2 e la vasca da bagno: perché nemmeno il Covid farà calare la concentrazione (con una sintesi degli ultimi dati scientifici), QualEnergia.it ha intervistato su questi argomenti Luca Mercalli, climatologo, divulgatore scientifico, presidente della Società Meteorologica Italiana e autore di vari libri, tra cui “Il clima che cambia”.

Mercalli, con il lockdown, le emissioni di alcune sostanze inquinanti sono diminuite, mentre la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera ha continuato a crescere. Spieghiamo questo fatto…

Molti pensano che tutto si sia fermato, in realtà il mondo ha continuato a funzionare, solo a un ritmo rallentato. E il rallentamento ha avuto effetti diversi: per alcuni inquinanti, il tempo di residenza nell’atmosfera è breve, quindi si vede un effetto immediato sulla qualità dell’aria. Ad esempio, per quanto riguarda gli ossidi di azoto e le polveri sottili, il lockdown ha portato a un miglioramento della qualità sanitaria della nostra atmosfera. Ma per quanto riguarda la CO2 il discorso è molto diverso, perché la CO2 ha un tempo di residenza nell’atmosfera di secoli.

Quindi quali effetti sta avendo il lockdown sulla CO2?

Aver diminuito di qualche punto percentuale le emissioni globali di CO2 nel primo trimestre 2020 ha appena scalfito il valore di tutta la CO2 emessa nel 2019, che è di circa 42 miliardi di tonnellate, e di tutta quella emessa da quando è iniziata la rivoluzione industriale e si è cominciato a bruciare carbone e petrolio. E poi, in questo momento dell’anno, la CO2 è nella fase ascendente del suo ciclo stagionale. C’è questo “respiro” dell’anidride carbonica che sale e scende tutti gli anni, regolato dalla fotosintesi delle piante.

Cosa dobbiamo aspettarci alla fine del 2020?

Magari anziché avere un incremento di 2,5 parti per milione [di concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, ndr], forse avremo un aumento di 2 parti per milione. Ecco perché sulla CO2 non si vede praticamente nulla; è come se il lockdown non avesse avuto un effetto tangibile sul clima. Sarebbe molto importante se queste riduzioni annuali della CO2 di un 5-7% si potessero mantenere per sempre.

In che modo?

Alcune cose sono relativamente facili da mantenere: penso alla grande lezione del telelavoro, che potrebbe essere mantenuta in qualsiasi ambito dove sia possibile stare in casa con un computer, senza dover prendere l’automobile o un aereo. Il telelavoro è una ragionevole eredità immediata del lockdown. Altre cose sono più difficili e non applicabili subito, come il Green Deal. Ci vorrà la forza politica di mantenerlo prioritario.

In tema di ripresa economica “verde”, c’è qualche misura che ritiene particolarmente utile nel decreto Rilancio appena approvato dal governo?

C’è un’importante attenzione all’ecobonus per gli edifici, con le detrazioni fiscali al 110% anche per l’installazione di pannelli fotovoltaici. C’è l’idea di riqualificare l’edilizia senza nuovo consumo di suolo, ma temo come sempre le contraddizioni. Ad esempio per non consumare più suolo bisognerebbe fare la legge contro il consumo di suolo. Bisognerebbe avere il coraggio di fare una cura e seguirla fino in fondo.

Allora per combattere il cambiamento climatico pensa che sia più efficace un approccio dall’alto, con un ruolo forte dello Stato, o un approccio dal basso, guidato da cittadini e comunità?

Sono due cose che devono viaggiare insieme: una società che rifiuta del tutto una strategia, politicamente non è feconda. È giusto cominciare con iniziative dal basso, ma le iniziative devono essere accompagnate dalla politica, altrimenti restano una nicchia.

Però nel nostro paese è molto difficile far sviluppare una sensibilità ambientalista nelle persone: crede che sia un problema di comunicazione, con troppa retorica o autoreferenzialità, o c’è dell’altro?

Non è solo un problema di comunicazione, ma anche antropologico. È l’eterno problema della prevenzione: questa ha un costo e se la metti in atto vieni criticato per quel costo, se poi la prevenzione ha funzionato, e il danno non c’è stato o è piccolo, vieni criticato lo stesso, perché hai sovrastimato la possibilità del danno. La prevenzione deve avere una profonda preparazione culturale per essere accettata. È un pedaggio da pagare oggi per evitare il peggio domani.

Quanto tempo abbiamo ancora a disposizione per risolvere l’emergenza climatica?

L’emergenza ambientale dice che bisogna fare in fretta. La sfida che abbiamo davanti è mettere insieme tre cose: la giustizia sociale, la fattibilità tecnica e l’urgenza fisica del sistema climatico. Se avessimo un tempo lungo per fare la transizione, di 30-50 anni, non sarei preoccupato, invece siamo incalzati dai numeri, da 416 parti per milione di CO2.

Qual è il significato di questi numeri?

Se vogliamo stare nella soglia dei 2 gradi di aumento delle temperature, il carbon budget che rimane è tra mezzo miliardo e un miliardo di tonnellate di CO2 [cioè di CO2 che possiamo ancora emettere nell’atmosfera, ndr]. Il problema è che c’è un limite e dovremmo fare di tutto per iniziare a togliere CO2 con un cronoprogramma. L’ordine di grandezza del tempo che abbiamo a disposizione per fare la transizione verso la neutralità climatica è una decina d’anni. Se perdiamo questi dieci anni, entriamo in una traiettoria di irreversibilità, dove possiamo ancora contenere [l’aumento delle temperature medie, ndr] a 4 gradi piuttosto che a 6 gradi, ma stiamo parlando di danni climatici imponenti.

In definitiva, qual è secondo lei il modo corretto di comunicare questa “urgenza” climatica?

Credo che ci voglia la verità della situazione drammatica nella quale ci troviamo, affiancata dalla speranza che se si fa la cura, si ottiene il risultato. Se il mio paziente ha il cancro, non gli vado a dire che ha un’unghia incarnita: gli dico che ha il cancro e che può guarire solo se inizia la chemioterapia domani mattina.

Da dove può arrivare lo stimolo al cambiamento?

Il mondo è spinto da capitali giganteschi che hanno interesse a mantenerlo così com’è. Quindi ci dev’essere almeno un pezzo di élite che spinge sul fare la differenza. Se l’élite finanziaria capisce che può essere danneggiata dal clima e comincia a guidare gli investimenti e i disinvestimenti, può darsi che abbia più efficacia di noi come singoli cittadini e del politico di turno che non ha sufficiente consenso. Se un grande fondo d’investimenti toglie ossigeno a un petroliere, quello il giorno dopo crolla in borsa e chiude.

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