Il petrolio al WTI di New York, mentre scriviamo (24 aprile, ore 12,30), è a 66,3 dollari al barile, mentre il Brent è a 74,5 $, in sensibile aumento rispetto a ieri (circa 25-30 centesimi di dollaro) e ai massimi livelli da sei mesi a questa parte.
La causa è, secondo gli osservatori, il blocco delle importazione dall’Iran che l’amministrazione Trump ha imposto anche ad altri paesi a partire dal 2 maggio. Gli Stati Uniti hanno infatti confermato che non prorogheranno oltre quella data le esenzioni (waivers) ad acquistare petrolio dall’Iran concesse ai paesi che ancora lo fanno, e cioè Cina, India, Italia, Grecia, Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Turchia.
L’obiettivo per Trump è tagliare ogni entrata economica a Teheran, con le sanzioni statunitensi già in vigore da novembre scorso. Dunque, dopo il 2 maggio, cioè dopo 180 giorni di proroga, gli Stati Uniti infliggeranno pesanti sanzioni ai paesi che importeranno greggio iraniano. Come e con quali tempi non è ancora chiaro. Ma non è detto che alcuni di questi paesi accetteranno l’imposizione nonostante i legami politici ed economici con Washington e nonostante un recente calo dell’import dal paese (nel 2019 l’Italia lo ha quasi azzerato, così come la Grecia).
La Turchia ad esempio ha già dichiarato che non accetterà sanzioni unilaterali e vincoli sulla gestione delle relazioni con i paesi vicini. Anche la Cina non sembra intenzionata a chiudere i ponti con l’Iran.
In effetti, come è stato scritto anche dal giornalista Pierre Haski su “Internazionale”, questo diktat unilaterale è contro le basi del diritto internazionale ed è spinto da Trump solo in nome della potenza del paese e sulle sue effettive capacità di punire gli altri paesi in modo indiscriminato.
Ricordiamo che la ragione delle sanzioni Usa all’Iran nasce sulle ceneri del negoziato nucleare firmato da Obama e ora interrotto da Trump, tra l’altro a causa delle notevoli capacità balistiche delle testate atomiche del paese mediorientale, peraltro molto influente in tutta l’area.
In effetti il vero obiettivo di Trump pare quello di far cadere il regime iraniano, che al contempo sta anche affrontando una nuova opposizione interna esacerbata pure da eventi climatici estremi, come diverse gravissime inondazioni. Contro il regime di Teheran si è saldata così un’alleanza con i nemici storici del paese, Israele e Arabia Saudita.
Da inizio anno queste pressioni sull’offerta di petrolio dall’Iran, a cui si aggiunge la ridotta produzione libica, ha fatto rialzare le quotazioni di petrolio di quasi il 50% circa. Secondo Trump però non ci sarebbero rischi per la domanda globale visto che questo divario verrebbe coperto da Arabia Saudita, Emirati Arabi e dagli stessi Stati Uniti.
Non sarà facile tuttavia perché l’Iran, che in media negli anni scorsi esportava circa 2,3 milioni di barili al giorno, a marzo era ancora intorno ad un export di 1,4 milioni di barili. Alcuni analisti petroliferi mediorientali stimano che Arabia Saudita ed Emirati potrebbero rimpiazzare al massimo solo fino ad un milione di barili/giorno. L’impressione è che il prezzo del greggio si manterrà elevato nei prossimi mesi. E un forte impatto lo subiranno, da subito, le economie asiatiche.
A prescindere dalle eventuali sanzioni Usa, per l’Italia un aumento significativo del prezzo del barile, potrebbe avere come effetto un rialzo generalizzato dei prezzi a partire dai prodotti agroalimentari, con un contagio poi in altri settori. Secondo Coldiretti nell’ambito dell’agroalimentare i costi della logistica (trasporti soprattutto) arrivano infatti ad incidere fino dal 30 al 35% sul prezzo totale.
A beneficiare di questa situazione intanto sono i titoli azionari legati al settore petrolifero: ieri in rialzo le quotazioni di Saipem, Tenaris ed Eni.
Insomma siamo ancora legati mani e piedi ai destini dell’oro nero e agli “interessi particolari” degli Stati Uniti.