Fotovoltaico, dal NREL la cella multistrato con efficienza record ma dai costi “spaziali”

Il National Renewable Energy Laboratory ha annunciato di aver creato una cella solare con un'efficienza del 47,5%. Le caratteristiche, i costi e le possibili applicazioni.

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Il premio Nobel americano William Shockley è noto non solo per essere l’inventore di uno dei più rivoluzionari e utili dispositivi di tutti i tempi, il transistor, ma anche per essere causa di una delle più persistenti frustrazioni in cui incorre chi si occupa di fotovoltaico.

Shockley, con il collega Hans-Joachim Queisser, ha infatti anche stabilito nel 1961 quale sia il limite di efficienza della conversione della luce in elettricità da parte di semiconduttori, fissandolo a un valore deludentemente basso.

Considerando che il massimo band gap teorico (il salto di un elettrone da un livello energetico all’altro) di un semiconduttore è 1,3 elettronvolt, i due fisici calcolarono che una cella fotovoltaica esposta a una luce di composizione e intensità pari a quella del Sole sulla Terra, non poteva raggiungere un’efficienza di conversione maggiore del 33,7%, cioè per ogni 1000 watt di energia luminosa, avrebbe restituito al massimo solo 337 watt di elettricità.

E visto che il silicio, l’elemento fotovoltaico di gran lunga più usato al mondo (il 95% dei pannelli si basano su di esso), ha la sua massima energia di band gap a 1,1 elettronvolt, la sua efficienza massima teorica è ancora più bassa: non oltre il 32%.

Questo non ha certo bloccato la diffusione delle tecnologie solari, ma dato che le celle al silicio più performanti sono ormai intorno al 24% di efficienza, ecco che, nella continua corsa a cercare di limitare i prezzi di questa tecnologia, non ci si possono aspettare grandi progressi sul quel fronte.

Eppure ricercatori del National Renewable Energy Laboratory (NREL), coordinati dal fisico Ryan France, hanno appena annunciato su Nature Energy di aver creato una cella solare con una efficienza del 47,5%, che trasforma quindi in elettricità quasi la metà dell’energia luminosa che ci cade sopra, fissando il nuovo record assoluto per il fotovoltaico (in questo schema i due nuovi record).

William Shockley si rivolterà nella tomba (Queisser no, è ancora vivo…) per aver clamorosamente sbagliato i suoi calcoli?

Non proprio, dorme tranquillo il suo sonno eterno, perché non ha sbagliato nulla: è solo che gli ingegneri, da tempo, hanno trovato il modo di aggirare il suo limite.

Il primo trucco che hanno usato è stato quello di aumentare la luce incidente sulla cella, usando sistemi di concentrazione della luce solare, come specchi o lenti, che moltiplicano per decine o centinaia di volte l’intensità luminosa normale.

Ma la cella inventata al NREL, anche se esposte alla normale luminosità solare mantiene una efficienza che resta del 39,7%, altro record, perché sempre ben sopra al limite Shockley-Queisser.

Qui entra in gioco il secondo e determinante trucco: le celle multi layer, dove si impilano uno sull’altro strati di diversi tipi di semiconduttore, ognuno in grado di assorbire una parte diversa dello spettro solare, così da sommare tutte le loro conversioni luce-elettricità.

La nuova cella del NREL utilizza entrambi questi metodi: in laboratorio è stata testata sotto a una luce concentrata pari a 143 soli, e la sua superficie è coperta da ben 6 strati di diversi semiconduttori costituiti da composti di elementi III-IV (come azoto, boro, fosforo, gallio o arsenico), fra cui il più noto è l’arseniuro di gallio, che offrono le massime band gap disponibili in diverse lunghezze d’onda.

«E migliorando ancora alcuni dettagli della cella, come gli strati conduttivi per catturare gli elettroni liberati dalla luce, non credo sarà difficile superare il 50% di efficienza», annuncia France.

Prima di saltare in piedi urlando che con questa cella i problemi della transizione energetica verso la sostenibilità sono risolti, aspettate però un secondo: l’invenzione del NREL, per ora, non è destinata per i tetti delle case di noi comuni mortali, ma a satelliti e sonde.

«Per realizzarla, abbiamo dovuto sovrapporre ben 140 strati di materiali diversi, fra semiconduttori, filtri, strati conduttivi e altro ancora, il tutto in uno spessore minore di quello di un capello», spiega France.

«L’alta efficienza, unita eventualmente alla concentrazione della luce solare, consente di usare superfici minime rispetto a quelle richieste dai pannelli FV convenzionali di pari potenza, il che rende la nuova cella ideale per l’industria spaziale, dove ogni chilogrammo costa decine di migliaia di dollari in più per il lancio».

Purtroppo, quando si scende sulla Terra, luogo dove c’è una competizione serrata per spendere il meno possibile nella produzione di energia solare, senza badare tanto al peso dei pannelli, le soluzioni usate dai ricercatori statunitensi non sono molto pratiche.

La concentrazione della luce complica molto l’impianto, richiedendo sistemi di puntamento del Sole molto precisi e di raffreddamento potenti e affidabili, per evitare che il tutto fonda, mentre celle composte di decine di strati di materiali, costano molto di più di quelle fatte da banali fette di silicio.

È vero, già esposte alla normale luce solare, queste celle multistrato avrebbero un’efficienza quasi doppia delle migliori al silicio, ma il prezzo dei pannelli per satelliti si aggira sui 200 $/watt, 3-400 volte quello dei pannelli “terrestri” (per intendersi, un impianto da 3 kW domestico con queste celle occuperebbe sì la metà della superficie, ma costerebbe circa 500mila euro). Allora addio ad ogni chance di competere.

E anche immaginando alcune semplificazioni per renderle più economiche, già annunciate al NREL, oltre che una massiccia produzione industriale, sembra difficile che il multi layer arrivi mai ai livelli di costo rasoterra che ha ormai raggiunto il silicio solare.

C’è però una nicchia commerciale convenzionale disponibile: il caso in cui si debba ottenere una grande potenza in spazi molto limitati, come potrebbe essere per esempio la carrozzeria di un’auto elettrica. Forse per quell’applicazione le celle multistrato potrebbero servire anche sulla Terra, ammesso che i loro prezzi scendano di un bel po’ dagli attuali livelli “spaziali”.

Quindi siamo condannati al “silicon for ever”?

Al momento pare di sì: gli unici competitori in grado di scalzare il predominio del silicio (che ha anche, non dimentichiamolo, i vantaggi di essere un elemento estremamente comune e non tossico), sembrano essere le famose celle a perovskite, economiche da produrre, efficienti quasi come quelle al silicio e composte di elementi comuni (anche se talvolta tossici come il piombo). Se solo non continuassero ad essere zavorrate da grossi problemi di durata: l’attuale record (teorico) di durata è di circa un anno, contro i decenni dei pannelli al silicio.

E anche se si riuscirà a stabilizzarle, forse il loro uso più comune sarà quello di fare da secondo strato per le solite celle al silicio, visto che l’intervallo di luce che assorbe la perovskite è complementare a quella usata dal silicio, e unendole si potrebbero ottenere celle a basso costo con una efficienza del 25%.

Altri dispositivi, in teoria ultraeconomici, come le celle a punti quantistici o a coloranti organici, finora, non sono riuscite a uscire dai laboratori.

“Re Silicio”, insomma, ha poco da temere per adesso, sia dalle minacce spaziali che da quelle terrestri.

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