Eni, Unicredit e Intesa San Paolo tra chi investe di più in fossili in Africa

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La denuncia nel rapporto lanciato durante la COP27 di Sharm el-Sheik dall'organizzazione tedesca Urgewald.

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Circa 200 società stanno esplorando o sviluppando nuove riserve di combustibili fossili, e nuove infrastrutture come terminal di gas naturale liquefatto (Gnl), gasdotti o centrali elettriche a gas e a carbone in Africa.

Tra queste, c’è la multinazionale italiana Eni e le due banche Intesa Sanpaolo e UniCredit, tutte protagoniste di diversi rapporti che denunciano le loro politiche di investimento fossili (vedi anche: Intesa Sanpaolo e UniCredit bocciate in decarbonizzazione e Eni e gli altri big fossili: ecco perché i loro piani di decarbonizzazione non sono credibili).

Così, mentre nella comunicazione esterna ed istituzionale si propongono come realtà vicine ai temi della sostenibilità, della transizione energetica e delle azioni di contrasto ai cambiamenti climatici, le nostre principali banche e una partecipata statale alimentano ancora un business fossile – sicuramente remunerativo – ma che, in modo particolare nel continente africano, oltre a devastare l’ambiente, è fonte di conflitti e instabilità politica, economica e sociale.

A tornare sull’argomento è il rapportoChi finanzia l’espansione dell’industria fossile in Africa?“, lanciato durante la COP27 di Sharm el-Sheik dall’organizzazione tedesca Urgewald, dalla coalizione Stop EACOP, da Oilwatch Africa e da altre 34 ONG africane, spiega ReCommon ha contribuito alla stesura del documento e in una nota stampa che ne riassume il contenuto.

Secondo il rapporto, allegato in basso, nel 2021 Eni è risultata la seconda multinazionale estrattiva per attività in Africa. Il 59 % della produzione globale del cane a sei zampe arriva infatti dal continente africano. L’aumento previsto da Eni negli anni a venire di 1,32 miliardi di barili, frutto anche di un investimento di 1,1 miliardi di dollari fra il 2020 e il 2022, farà sì che le emissioni derivanti siano addirittura il doppio rispetto a quelle registrate all’anno in Italia.

Solo la Sonatrach algerina dedica più fondi all’attività di esplorazione.

Tra i 14 paesi africani dove il cane a sei zampe è presente ci sono Egitto, Nigeria, Libia, Algeria e Repubblica del Congo, in cui la società fondata da Enrico Mattei – sottolinea ReCommon – è attiva da decenni.

Ma è in fortissima crescita la presenza di Eni anche in Angola e Mozambico. Nel primo Paese, dal 2018 a oggi Eni ha effettuato numerose scoperte, arrivando a formare un consorzio con la BP, denominato Azule Energy, che dovrebbe produrre 200mila barili di petrolio da riserve stimate per un totale di due miliardi di barili. Entro il 2026, inoltre, in Angola si arriverà a produrre sei miliardi di metri cubi di gas l’anno.

Il gas è di certo il business più fruttuoso in Egitto, ricorda ReCommon, dove il mega-giacimento di Zohr scoperto nel 2016 è la punta di diamante, ma anche in Mozambico. Qui Eni è già attiva con il progetto Coral South e sta spingendo per aggiungere alla corona il gioiello di Rovuma LNG, il cui valore è stimato in 30 miliardi di dollari, con tanto di realizzazione di un impianto su terraferma per il processamento e l’export del gas proveniente da 24 pozzi sottomarini.

Ma proprio nella regione interessata dall’attività di Eni e della multinazionale francese Total è in corso un’insurrezione armata guidata dal gruppo Al-Shabaab, che dal 2017 ha causato oltre 4mila vittime e 800mila sfollati. Da luglio scorso c’è stata una forte impennata degli attacchi, con 120 azioni e almeno 200 morti, tra le quali la suora comboniana Maria De Coppi, uccisa nel villaggio di Chipene.

Il ruolo delle banche

Tutte queste opere devastanti sarebbero difficilmente realizzabili senza il sostegno finanziario di fondi e banche private.

Dati alla mano, aggiornati a luglio 2022 – denuncia il rapporto – oltre 5mila investitori istituzionali avevano azioni e obbligazioni delle compagnie fossili attive in Africa, per un ammontare di 109 miliardi di dollari. Ben 12 miliardi fanno capo al fondo di investimento statunitense BlackRock, che a Eni “dedica” 958 milioni del suo ricco portafoglio.

Tra gli istituti di credito sono ancora due soggetti a stelle e strisce a dominare, riassume ReCommon: Citigroup (5,591 miliardi) e JPMorgan Chase (5,093 miliardi), seguiti dalla francese BNP Paribas.

La finanza privata italiana si posiziona al settimo posto a livello globale per finanziamenti fossili in Africa. In classifica sono ben presenti infatti i due nomi importanti del mondo bancario italiano, UniCredit (2,163 mld) e Intesa Sanpaolo (1,491 mld), in prima fila nel sostenere i progetti oil&gas di Eni nel continente africano.

Facendo riferimento, tra i tanti, ai casi sopramenzionati, parliamo di 160 milioni di dollari da parte di UniCredit e di 110 milioni di dollari da parte di Intesa (tramite la incorporata Ubi banca) al progetto Coral South FLNG di Eni in Mozambico. E potrebbero essere in rampa di lancio per finanziare i progetti della joint-venture Azule Energy in Angola.

Idrocarburi, poche imprese escono dal mercato e molti si espandono

Estendendo lo sguardo a livello globale, i risultati di questo rapporto ricordano la fotografia che emerge dalla “Global Oil & Gas Exit List” (GOGEL), la prima raccolta annuale tratta da un database pubblico che monitora 901 compagnie petrolifere e del gas, responsabili del 95% della produzione mondiale di idrocarburi.

Secondo il rapporto, di cui abbiamo parlato su queste pagine, il 96% delle aziende del settore petrolio e gas è in espansione e centinaia di istituzioni finanziarie non hanno ancora adottato nei loro portafogli di investimenti criteri di esclusione rigorosi e basati sulla scienza.

Tra il 2020 e il 2022, la spesa globale delle aziende per l’esplorazione di nuovi giacimenti di petrolio e gas in tutto il mondo è aumentata del 12,4% a oltre 160 miliardi di dollari.

Neanche un centesimo di questa spesa rispetta il percorso per emissioni nette zero dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), secondo GOGEL.

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