Chi saprà guidare la battaglia per il clima?

Oggi nessun paese ha la forza politico-economica di guidare l’agenda internazionale verso obiettivi comuni. Cambiamenti climatici e rischi geopolitici del 2021 nel rapporto di Eurasia Group.

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La lotta contro il cambiamento climatico porterà verso una maggiore cooperazione tra governi, o sarà un nuovo terreno di scontro e competizione?

Al netto della pandemia, il clima figura tra i principali rischi geopolitici del 2021 secondo il rapporto annuale Top Risks (allegato in basso) elaborato da Eurasia Group, la società di consulenza fondata e presieduta dal politologo americano Ian Bremmer.

Il 2020 intanto si è chiuso come l’anno più caldo della storia insieme con il 2016, afferma il Copernicus Climate Change Service (C3S): si è registrato un incremento della temperatura media di circa 1,25 gradi a livello globale in confronto al periodo preindustriale (1850-1900) e di 0,6 gradi in confronto al 1981-2010.

Nell’Artico e in Siberia ci sono state deviazioni delle temperature annuali molto consistenti: fino a +6 gradi rispetto alla media in alcune zone della Siberia settentrionale, mentre la concentrazione di anidride carbonica è continuata a salire, nonostante il temporaneo calo delle emissioni durante il lockdown.

Il 2020 è stato l’anno, scrive Eurasia Group, in cui si sono moltiplicati gli annunci net-zero di vari paesi: Unione europea, Cina, Corea del Sud, Giappone, si sono impegnati ad azzerare le emissioni nette di anidride carbonica entro metà secolo (2060 per la Cina).

Ecco perché la società di consulenza parla delle complesse relazioni tra obiettivi net-zero e scenario “G-Zero”, dove G-Zero è la teoria del vuoto politico (sostenuta da Bremmer) in cui nessun paese ha la forza politico-economica di guidare l’agenda internazionale verso obiettivi comuni. G-Zero è anche un modo per dire che i gruppi tradizionali di potere industriale e finanziario, come il G7, sono ormai obsoleti.

L’impegno climatico potrebbe cambiare questa situazione di vuoto, grazie anche al nuovo presidente americano, Joe Biden, il cui insediamento alla Casa Bianca avverrà il 20 gennaio, al termine del mandato di Trump.

Biden ha dichiarato che gli Stati Uniti torneranno dentro l’accordo di Parigi sul clima e ha puntato la sua campagna elettorale su una maxi ondata di investimenti nelle energie rinnovabili.

Tuttavia, afferma Eurasia Group, c’è il rischio di sovrastimare la nuova era di cooperazione globale sul clima, perché i nuovi piani su energia e clima potrebbero essere meno coordinati ed efficaci di quanto si creda oggi.

La transizione energetica, si legge nel rapporto, sarà dominata dalla competizione e da una mancanza di coordinamento internazionale, con il rischio di accentuare le fratture tra stati e governi.

Definire politiche globali sul clima, come una carbon tax, è sempre stato difficile, tanto per usare un eufemismo.

E un’analisi di Carbon Brief evidenzia che solamente 45 Paesi, alla scadenza fissata dalle Nazioni Unite in base all’accordo di Parigi (il 2020), hanno trasmesso i rispettivi piani con impegni rafforzati per ridurre le emissioni inquinanti.

Troppo poco, anche perché mancano all’appello colossi come Cina, India, Stati Uniti.

Il rischio allora è che gli annunci net-zero per il 2050 restino annunci vuoti, o solo in parte riempiti con gli investimenti necessari per realizzare un’economia a zero emissioni.

Greta Thunberg, su Twitter, con riferimento alla recente decisione del governo inglese di non intervenire contro il progetto di aprire una nuova miniera di carbone, West Cumbria Mining (il carbone servirà per la produzione di acciaio), ha scritto (traduzione nostra dall’inglese, in corsivo): “Questo mostra il vero significato del cosiddetto ‘net zero nel 2050’. Questi obiettivi vaghi, insufficienti e proiettati nel futuro, fondamentalmente non significano nulla oggi”.

A dicembre, in due distinti rapporti, il programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep, United Nations Environment Programme) ha evidenziato l’enorme divario tra “dove si sta andando” e “dove si dovrebbe andare” in tema di cambiamenti climatici.

In sostanza, scriveva l’Unep, l’attuale modello di sviluppo economico-energetico è totalmente incompatibile con gli obiettivi per il clima al 2030 e 2050, perché i governi stanno pianificando di incrementare la produzione di carbone, petrolio e gas del 2% l’anno in media da qui al 2030, anziché ridurla.

Quindi le azioni dei governi su scala mondiale contraddicono gli annunci di obiettivi net-zero per azzerare le emissioni nette di anidride carbonica entro metà secolo.

Inoltre, come spiegava già Luca Mercalli in questa intervista a QualEnergia.it dello scorso maggio, il calo annuale della CO2, se rimarrà circoscritto al 2020 (circa -7% sul 2019 “grazie” agli effetti del lockdown), avrà una conseguenza trascurabile sulla tendenza del clima di lungo periodo.

Ecco perché diventa fondamentale utilizzare i piani di ripresa economica per investire nella transizione “verde”: fonti rinnovabili, efficienza energetica, tutela degli ecosistemi, auto elettriche, in modo da ridurre velocemente e costantemente le emissioni di CO2.

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