Chi ha riempito l’aria di CO2? È problema… di classe

Ecco chi è causa della crisi climatica: l’1% dell'umanità più ricca emette più CO2 della metà dell’umanità costituita dai più poveri. Riprendiamo un'analisi di Oxfam redatta dallo Stockholm Environment Institute.

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Ora che si avvicina il momento di decidere su come affrontare in pratica il cambiamento climatico, è anche cominciato il “blame game”, cioè il gioco di indicare il colpevole se dovessero fallire le trattative in corso prima della cruciale conferenza Onu Cop26 di Glasgow, del novembre prossimo.

Fra questi potenziali colpevoli in prima fila ci sono Cina e India, le due superpotenze demografiche, responsabili rispettivamente del 28%, prima nel mondo, e del 7%, terza dopo gli Usa, delle emissioni di gas serra mondiali, che sembrano le più restie a intraprendere misure climatiche decise.

La prima ha annunciato vagamente che raggiungerà la parità climatica “netta” (aggettivo insidioso che vuol dire un equilibrio fra quanta CO2 si immette e quante se ne assorbe) nel 2060, cioè dieci anni dopo le altre potenze economiche, mentre la seconda non ha ancora preso impegni in tal senso.

Ovvio che se la COP26 dovesse finire con un nulla di fatto, avremmo già due capri espiatori belli grossi con cui prendercela.

Ma prima di passare alla crocifissione virtuale dei 3 miliardi di persone che vivono nei giganti asiatici, conviene riguardarsi il rapporto OxfamConfronting carbon inequility” del settembre 2020 (allegato in basso).

Lo studio, redatto dallo Stockholm Environment Institute, è riuscito a ricostruire la provenienza delle emissioni mondiali dalle varie fasce di popolazione suddivise per reddito.

In passato ricerche simili erano state fatte su base nazionale, e avevano dimostrato come la CO2 attualmente presente in aria a fare danni al clima, sia frutto soprattutto delle emissioni causate da Europa e Usa negli ultimi 200 anni.

In particolare, dei 1500 miliardi di tonnellate di CO2 antropici emessi dal 1750 a oggi, 400 mld arrivano dagli Stati Uniti, 350 dai 28 paesi UE e solo 200 mld dalla Cina (con buona parte di questo “carbonio cinese” immesso in atmosfera per produrre cose poi consumate nel resto del mondo), e solo 48 mld dall’India.

In quel caso l’obiezione è che, siamo d’accordo, quello riguarda il passato, ora dobbiamo pensare al futuro e occorre che tutti i grandi emettitori facciano la loro parte.

Il rapporto Oxfam, però, si occupa solo delle emissioni recenti, dal 1990 al 2015, e svela che non tutti gli abitanti del mondo sono uguali a questo riguardo: l’1% di umanità più ricca, per esempio, emette più CO2 della metà dell’umanità costituita dai più poveri.

Per la precisione, i 63 milioni di persone che nel mondo guadagnano più di 100mila $ l’anno, sono responsabili dell’emissione del 15% dei gas climalteranti annuali, mentre i 3,6 miliardi di persone che se la cavano con meno di 2000 $ all’anno, non arrivano a emettere più del 7% del totale della CO2.

Allargando l’orizzonte dai ricchi alla borghesia globale, chi guadagna più di 35000 $ annui, pari al 10% della popolazione mondiale, emette invece la metà dei gas serra.

Insomma, l’alterazione del clima, più che un problema nazionale, sembra un problema di ricchezza, oppure, usando un termine ormai caduto in disuso, di classe.

«La ragione di questa enorme disparità di emissioni è abbastanza ovvia: ricchi e benestanti, in qualunque parte di mondo vivano, hanno stili di vita abbastanza simili e molto energivori», spiega Tim Gore, capo delle politiche e della ricerca di Oxfam International.

«Più una persona ha un reddito alto, e più ha consumi che comportano alte emissioni: dall’avere tante auto in famiglia e spesso di grossa cilindrata al viaggiare frequentemente in aereo, dall’essere forti consumatori di prodotti ad alte emissioni, siano essi alimentari, vestiti o elettronica, all’avere abitazioni più grandi e ben climatizzate, che consumano molta energia».

Al contrario i poveri mangiano poco, locale e spesso autoprodotto, hanno case piccole e poco o per niente climatizzate, consumi extra alimentari minimi e viaggi ancora meno frequenti.

Quindi siamo di fronte a un clamoroso paradosso di (in)giustizia: chi vive veramente, anche se inconsapevolmente, in modo sostenibile sarà anche chi, essendo concentrato nei paesi più caldi e siccitosi, subirà le conseguenze più pesanti del cambiamento climatico, il quale è causato largamente dal comportamento di chi, magari preoccupandosi a parole del problema, con i suoi comportamenti è di fatto da decenni il maggior responsabile dell’alterazione climatica.

Anche se poi, almeno inizialmente, la subirà di meno, in quanto protetto dal suo benessere economico e in genere abitante di paesi in grado di affrontare l’emergenza.

«Visto che l’impronta carbonica dei più ricchi non solo è 100 volte quella dei più poveri, ma anche 35 volte più grande di quella media necessaria a rispettare il limite di 1,5 °C di aumento massimo delle temperature al 2100, mentre per il 10% più ricco le cifre sono rispettivamente 30 e 10 volte, direi che ci sono pochi dubbi su chi dovrebbe impegnarsi al massimo per ridurre le emissioni di CO2», fa notare Gore.

Però ormai paperoni e borghesi, vivono un po’ in tutto il mondo?

«Beh, non proprio: metà di quelli con reddito sopra i 100mila euro vivono in Usa e Ue, che ospitano solo il 10% della popolazione mondiale, mentre un terzo dell’1% con il reddito massimo è americano, e un altro sesto mediorientale. Ovviamente oggi ci sono anche molti ricchi e benestanti in Cina e India, ma lì vive anche il 35% della popolazione mondiale», dice Tim Gore.

«Naturalmente ogni nazione deve fare il massimo degli sforzi possibili per ridurre le sue emissioni e rispettare gli impegni presi a Parigi. Ma visto quali “classi” producono più CO2, e visto come queste sono distribuita, è ovvio che chi ha più ricchi debba in effetti fare di più, non puntare solo il dito alle emissioni complessive delle nazioni».

Ma come si fa a costruire una politica di “giustizia climatico-economica”?

«Dobbiamo imparare dalla lezione della pandemia, che, anche se non ha portato a una maggiore equità di reddito, anzi spesso è avvenuto il contrario, almeno ha dimostrato che misure definite “impensabili”, come dare sovvenzioni dirette ai più poveri alle cure mediche gratuite, possono essere prese in casi di emergenza. E al momento non c’è emergenza più grave di quella climatica».

Ma in pratica che bisognerebbe fare?

«Innanzitutto finanziare la transizione energetica, prelevando denaro dalle le fasce di popolazione di maggior reddito, e usare quel denaro per aiutare i meno abbienti a stare meglio ed emettere meno», conclude il responsabile ricerca di Oxfam.

«Per esempio elevando le aliquote sui redditi maggiori, tassando fortemente i beni di lusso, le auto più costose, il carburante per aerei e altri consumi tipici delle classi elevate, e con i ricavi finanziare interventi come la ristrutturazione energetica delle case delle fasce più deboli, così che riducano bollette ed emissioni, e piani di installazione di infrastrutture per le rinnovabili, che offrano posti di lavoro a chi vede minacciato dalla transizione il proprio».

Ma Oxfam propone anche di affrontare l’elefante nella stanza, la misura di cui nessuno vuole parlare: domare il cavallo impazzito del consumismo.

«Certo, riuscire a rispettare i limiti climatici e contemporaneamente pensare di continuare con il business-as-usual dello spreco e dell’estrazione incontrollata di risorse è una follia. Per cui proponiamo di adottare una serie di misure concordate a livello globale per eliminare progressivamente i consumi inutili, come limitare la pubblicità, ridurre al minimo il pendolarismo con il lavoro a distanza, rendere obbligatorio l’uso di materiale riciclato nell’industria e obbligare i fabbricanti a rendere i loro prodotti durevoli e riparabili, per non costringere le persone a cambiarli quando ancora funzionano perfettamente», conclude Gore.

Belle idee, ma qualcosa ci dice che molti governi non saranno esattamente entusiasti all’idea di applicarle.

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