Catturare la CO2 per salvare il clima: chi ci scommette ancora?

Agenzia internazionale dell'energia, governo norvegese, analisti di Wood Mackenzie: molti ritengono che non si potrà rinunciare ai sistemi CCS per azzerare le emissioni, nonostante i fallimenti collezionati finora.

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Sarà necessario “catturare” una parte delle emissioni di CO2 per salvare il clima?

Una parte del dibattito sul cambiamento climatico ruota intorno alle potenzialità e ai rischi del CCS (Carbon Capture and Storage), la tecnologia che assorbe l’anidride carbonica emessa dagli impianti industriali per poi stoccarla nel sottosuolo.

Ma i costi sono elevati e finora i progetti per realizzare impianti CCS di grandi dimensioni si sono arenati in tutto il mondo anche perché conviene sempre di più investire in fonti rinnovabili, con eventuali accumuli, piuttosto che in nuove infrastrutture legate alle energie fossili.

Si parla, insomma, di una tecnologia sperimentale che non ha ancora dimostrato la sua efficacia né la sua capacità di raggiungere economie di scala per ridurre gli investimenti iniziali.

C’è chi però continua a sostenere che la cattura della CO2 sia un ingrediente indispensabile per azzerare le emissioni di CO2 entro metà secolo, in linea con gli obiettivi del Green Deal europeo e con quelli appena annunciati dal presidente cinese (raggiungere la “neutralità carbonica” entro il 2060).

L’Agenzia internazionale dell’energia (IEA: International Energy Agency) ha sempre affermato che un po’ di CCS sarà necessario. Alla stessa conclusione era giunto uno studio del Potsdam Institute, si veda questo articolo.

In un nuovo rapporto speciale, CCUS in Clean Energy Transitions (link in basso), la IEA parla di potenziali investimenti per 27 miliardi di dollari in progetti che si stanno avvicinando alla decisione finale d’investimento, e di piani per più di 30 impianti CCS di taglia commerciale, annunciati negli ultimi tre anni su scala globale.

Insomma, secondo la IEA questa tecnologia sta tornando in auge, nonostante i lenti progressi compiuti da un decennio a questa parte.

Un esempio è la Norvegia, il cui primo ministro, Erna Solberg, nei giorni scorsi ha annunciato che il governo finanzierà il mega-progetto “Longship” che comprende una serie di iniziative nel CCS, tra cui un impianto per catturare le emissioni di un cementificio di HeidelbergCement e un altro impianto per sequestrare la CO2 di un inceneritore a Oslo.

Nel pacchetto c’è anche l’iniziativa Northern Lights: una joint-venture tra Equinor, Shell e Total per realizzare un sistema CCS con cui trasportare via nave la CO2 liquida, catturata da diversi stabilimenti industriali, fino a un terminale sulla costa occidentale del paese.

Da lì, la CO2 continuerà il suo viaggio via pipeline per approdare definitivamente in un deposito di stoccaggio sottomarino (una formazione geologica adatta allo scopo).

Il governo norvegese finanzierà le iniziative con 16,8 miliardi di corone (circa 1,54 miliardi di euro), quindi una buona fetta del costo totale stimato per tutti i progetti, circa 25 miliardi di corone.

Ricordiamo che la Norvegia sta cercando di far decollare il CCS da una decina d’anni, finora senza successo sotto il profilo economico-commerciale.

E secondo la IEA il CCS servirà anche per produrre una certa quantità di idrogeno da fonti fossili, in modo da abbattere le relative emissioni e rendere pulita la produzione di questo idrogeno.

Anche Wood Mackenzie, nel suo nuovo Energy Transition Outlook, ritiene che CCS e idrogeno (qui si parla solo di idrogeno verde prodotto da fonti rinnovabili) saranno due tecnologie “vitali” nella lotta contro il cambiamento climatico, anche se nessuna è stata già sviluppata su scala commerciale.

Entrambe le tecnologie rimangono promettenti, precisa Wood Mackenzie in una nota, specialmente la seconda (l’idrogeno da rinnovabili) ed entrambe devono essere parte della soluzione per limitare a +1,5-2 gradi l’aumento delle temperature terrestri, come previsto dall’accordo di Parigi.

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