Fossili, il CCS è peggio delle rinnovabili con storage

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Uno studio internazionale confronta l'Eroei (il tasso di ritorno energetico) di impianti a fossili dotati di CCS con quelli a fonti rinnovabili dotati di sistemi di accumulo. Ne parliamo con Ugo Bardi, tra gli autori della ricerca.

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Il CCS, carbon capture and storage, in pratica la cattura della CO2 emessa dalle centrali termiche, e il suo stoccaggio in un qualche deposito sotterraneo, come giacimenti di petrolio esauriti, è una sorta di Terminator energetico: tutte le volte che sembra morto, risalta fuori.

Di CCS si parla infatti da decenni, ma nonostante la tecnica goda dell’appoggio delle multinazionali dei fossili e che si sia investito miliardi nel suo perfezionamento, non c’è neanche una grande centrale che usi questa tecnologia: nel 2016, ultimo anno con dati disponibili, sono stati dotati di prototipi di CCS solo 110 MW di impianti termici.

Sul sito del Global CCS Institute si può vedere il non esaltante quadro globale degli impianti a CCS, tenendo conto che quasi tutti quelli della mappa sono possibili progetti futuri e che quelli esistenti in gran parte riguardano la CO2 separata dal petrolio, e reiniettata nei giacimenti per favorire l’estrazione.

Il CCS suscita evidentemente entusiasmo solo a parole, eppure nel 2018 è stato di nuovo ipotizzato da ricercatori tedeschi come unico rimedio per riuscire a centrare gli accordi di Parigi, mentre l’International Energy Agency (IEA) lo vede così indispensabile che, secondo loro, la sola Cina avrà 350 GW di CCS nel 2050. Ma al momento non ci sono impianti di quel tipo nel paese, e nemmeno ne sono stati annunciati. Persino in Italia per un po’ si è pensato di impiegarlo per continuare utilizzare il carbone del Sulcis.

Vista l’insistenza su questa tecnologia, non sarà che il CCS per sequestrare la CO2 degli impianti a fossili sia in fondo veramente un prezioso strumento per salvare il clima, ingiustamente trascurato?

Secondo una ricerca (Comparative net energy analysis of renewable electricity and carbon capture and storage) condotta da un gruppo di ricercatori di università arabe, inglesi, americane e italiane, fra cui Ugo Bardi, chimico dell’Università di Firenze, e pubblicata su Nature Energy,  la risposta è un chiaro “No!”.

Bardi e colleghi hanno provato a stimare quanto sia l’Eroei di impianti a fossili dotati di CCS, e di impianti a rinnovabili dotati di sistemi di accumulo, così che possano fornire un’energia programmabile come le prime. L’Eroei (Energy Returned On Energy Invested) è un indice che misura quanta energia è prodotta nel corso della vita utile di una centrale elettrica, rispetto a quella spesa per costruirla e farla funzionare. Più è alto questo indice più conveniente energeticamente l’impianto considerato

Un calcolo decisamente complesso, sia perché, come detto, non esistono ancora impianti di CCS di larga scala, da usare come riferimento, sia perché di impianti di accumulo per rinnovabili ce ne sono di molti tipi diversi, dalle batterie al pompaggio idroelettrico, ognuno con le proprie limitazioni e vantaggi e che anche di alcuni di questi non esistono ancora esempi su larga scala.

«Quello che è comunque certo – spiega Bardi – è che la tecnologia CCS più in uso oggi, quella del separarla dai fumi tramite assorbimento in ammine, che vanno poi rigenerate, per poi liquefarla, e infine trasportarla con tubi o camion fino ai pozzi in cui pomparla, è molto dispendiosa in termini energetici, e quindi peggiora fortemente l’Eroei delle centrali a cui è applicata».

Lo stesso però si può dire per i sistemi di stoccaggio per l’elettricità, che richiedono la costruzione di complessi dispositivi, come le batterie, di impianti industriali, come quelli per la produzione di idrogeno, o di bacini idroelettrici, e quelli basati sul pompaggio di acqua a diverse altezze.

Dopo complesse ipotesi, ragionamenti e calcoli, le conclusioni dei ricercatori sono che l’Eroei medio delle nuove centrali a fossili dotate di CCS varia fra 6,6 per quelle a carbone gassificato fino a 21,3 per quelle a gas naturale e ciclo combinato.

Nel caso delle rinnovabili, invece, l’Eroei con i vari tipi di storage (fra i quali il migliore per ritorno dell’investimento energetico iniziale è sicuramente quello a pompaggio idroelettrico, mentre il peggiore sono le batterie, con la conversione in idrogeno a un valore intermedio) varia da 9 a 25 per il FV , e da 20 a 30 per l’eolico, in aree a media abbondanza di soleggiamento o ventosità.

Per avere un quadro più realistico, i ricercatori hanno poi applicato il loro modello a un ipotetico sistema di energie rinnovabili al 100% per l’Europa, comprendente un mix di fonti rinnovabili e di sistemi di accumulo: in questo caso l’Eroei complessivo è risultato di 21,9, sempre migliore di quello delle centrali a gas a ciclo combinato con CCS, con l’ulteriore vantaggio che il sistema a rinnovabili ci libererebbe anche dalla dipendenza da una risorsa limitata, di costo crescente e in gran parte importata.

«Insomma in quasi tutte le condizioni, mettersi oggi a costruire centrali a fossili con cattura di CO2, risulta energeticamente più inefficiente che costruire centrali a rinnovabili con sistemi di accumulo. Quindi, se vogliamo massimizzare le possibilità di riuscire a contenere il cambiamento climatico, è meglio investire tutte le risorse sulle rinnovabili», sintetizza Bardi.

Un grosso limite della ricerca, però, è che considera solo le centrali nuove, mentre il CCS viene proposto soprattutto come retrofit a centrali già esistenti.

«Non abbiamo considerato questa opzione, ma non credo che i risultati dell’Eroi cambierebbero molto, tanto più se consideriamo che applicare nuove tecnologie a impianti che non le prevedevano e che magari si trovano anche lontanissimi dai luoghi dove stoccare la CO2, sarebbe ancora più energeticamente dispendioso, e quindi inefficiente che nel caso di fare impianti nuovi già pensati per il CCS», dice il chimico fiorentino.

E in effetti, il fatto che nessuno abbia ancora applicato questa tecnologia su larga scala ci dice molto sul fatto che la sua inefficienza energetica si riflette anche sulla sua poca convenienza economica.

Secondo James Mulligan, un esperto di CCS al World Resources Institute, questa tecnologia potrebbe finire per costare da 100 a 200 $ per ogni tonnellata di carbone bruciata.

Visto che il prezzo medio di questo combustibile oggi è sui 40 $/t, si capisce bene che il CCS sarebbe il bacio della morte per le centrali a fossili, a meno di enormi incentivi, difficili da far ingoiare ai contribuenti.

«Se di CCS si continua a parlare, insomma, è solo perché è una foglia di fico dietro alla quale l’industria dei fossili si nasconde. In pratica dicono “lasciateci costruire le nostre centrali, e vedrete che un giorno le renderemo innocue per il clima con il CCS”, ma quel giorno non credo arriverà mai, e se anche arrivasse, come dimostra la nostra ricerca, sarebbe un disastro per le politiche climatiche», dice il professore.

Quindi il CCS va abbandonato?

«Non del tutto. Può avere una funzione per rimuovere la CO2 dall’atmosfera, se, come mi sembra probabile, non riusciremo ad agire abbastanza rapidamente da evitare il superamento della soglia oltre al quale rischiamo una catastrofe climatica globale. In quel caso, migliaia di impianti di rimozione, liquefazione e pompaggio nel sottosuolo della CO2 atmosferica, ovviamente alimentati a rinnovabili, potrebbero venirci utili».

Ma per quello forse converrebbe usare altre tecniche di rimozione, come la riforestazione.

«La riforestazione sicuramente aiuterà, ma per rimuovere le centinaia di miliardi di tonnellate di CO2 di troppo in aria, non basterebbe coprire di alberi tutta la terra a disposizione. E servirebbero anche in proporzione acqua, fertilizzanti e lavorazioni. Il CCS della CO2 atmosferica potrebbe essere quindi il nostro “ultimo rimedio”, sperando certo, che la CO2 una volta pompata nel sottosuolo lì resti per sempre, un’altra cosa di cui al momento nessuno, neanche i più convinti sostenitori di questa tecnica, può esser sicuro», conclude Bardi.

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