Bonus-malus auto, come migliorare la misura e spingere i veicoli elettrici

Alla luce della recente misura governativa per il finanziamento di auto con basse emissioni di CO2, si dovrebbe soprattutto ragionare su come sviluppare la produzione nazionale di veicoli elettrici e ibridi e trovare risorse per incentivare la loro domanda. Ecco alcune idee.

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In attesa di capire come verrà modificata la proposta governativa per finanziare auto con basse emissioni di CO2 (elettriche, ma non solo) che prevedeva un bonus compreso tra 1.500 e 6.000 € a fronte di un aggravio compreso tra 150 e 3.000 € per l’acquisto di auto sulla base delle emissioni di CO2, è utile inquadrare il tema cercando di capire come si può migliorare la misura.

Innanzitutto, va chiarito come solo il 47% delle auto acquistate sarebbe toccata dal provvedimento, ed è probabile che nel decreto finale la quota coinvolta verrà ulteriormente ridotta.

Certo, l’emendamento poteva essere impostato meglio, e in questo articolo elenchiamo alcune proposte. Ma, soprattutto è preoccupante il fatto che si faciliti l’acquisto di auto a basse emissioni senza che ci sia uno sforzo (visibile) altrettanto significativo nel creare opportunità per un’industria nazionale della mobilità elettrica – bus, auto, moto – e per le imprese della componentistica.

Pensiamo alla produzione di veicoli elettrici

La rivoluzione della mobilità elettrica sarà inarrestabile, ma vedrà vincitori e vinti. Un esempio viene dalla Cina, che avendo difficoltà a competere con le case straniere nella produzione di autoveicoli convenzionali si è lanciata sulla mobilità elettrica divenendo in pochi anni leader. Nei primi sei mesi di quest’anno ha venduto 350.000 auto elettriche e sulle sue strade viaggia un terzo del totale del parco mondiale di queste auto, oltre a 300.000 autobus elettrici.

Dopo aver sostenuto con efficacia questo comparto, il governo ha imposto obblighi di vendita di veicoli elettrici nel gigantesco mercato interno di 25 milioni di auto l’anno.

Il meccanismo delle quote, già introdotto con successo in California, prevede che nel 2019 l’8% delle vendite dovranno essere elettriche, un valore che passerà al 12% nel 2020 (la percentuale pesa in modo diverso le elettriche pure e quelle plug-in). Questa mossa ha spiazzato le case occidentali, in particolare Volkswagen che ha avuto la sfortuna di imbattersi nello scandalo Dieselgate troppo tardi per avviare il necessario cambio di strategia.

Un altro strumento importante per orientare le strategie delle case produttrici consiste nella definizione di una data oltre la quale non sarà più possibile vendere auto a benzina o diesel, come hanno fatto diversi paesi fra cui India, UK, Norvegia e Francia.

L’attenzione al mondo della produzione è dunque centrale e dovrebbe riguardare gruppi industriali e governi. L’Italia su questo fronte è rimasta molto defilata, con FCA che ha sempre snobbato l’elettrico e i governi che non se ne sono occupati, se si esclude la breve esperienza del programma “Industria 2015” lanciato nel 2007.

Questo ritardo oggi si paga e sono francamente poco sensate le lamentazioni di coloro – forze politiche, imprese, sindacati – che attaccano il decreto perché penalizzerebbe la nostra industria.

Mi ricorda l’analoga situazione di una ventina di anni fa quando al Ministero dell’Ambiente volevamo incentivare frigoriferi efficienti per fare evolvere il mercato, trovando la ferma opposizione delle nostre imprese.

All’ultima dichiarazione dei vertici FCA che mettono in dubbio gli investimenti in Italia a seguito del provvedimento del governo, si potrebbe rispondere alzando la soglia delle emissioni per togliere alibi alla casa e non metterla troppo in difficoltà, ma contemporaneamente si dovrebbe indicare una quota di auto elettriche/ibride che tutti i gruppi che vogliono vendere in Italia dovranno garantire.

Si potrebbe partire con una quota dell’1,5% nel 2020, alzando poi la percentuale negli anni successivi. Sarebbe un segnale potente che potrebbe far riflettere i vertici FCA ed orientare gli investimenti produttivi in Italia.

Incentivare le auto elettriche: fondamentale partire col piede giusto

Sottolineata l’importanza di dedicare la giusta attenzione sul versante dell’offerta, è certamente importante interessarsi delle infrastrutture di ricarica e della incentivazione della domanda e la decisione del governo va quindi apprezzata.

L’emendamento bonus-malus poteva essere impostato diversamente? Certo, si potevano adottare altre soluzioni. Come quella proposta da Motus-e, l’associazione di aziende, università, ambientalisti impegnata nello sviluppo della mobilità elettrica, che aveva tra l’altro il vantaggio di essere stata preventivamente validata da gruppi automobilistici.

Motus-e suggerisce un incremento della tassa di circolazione, modulata in funzione delle emissioni di CO2. Un esborso che essendo spalmato su un numero molto maggiore di attori, risulta più leggero. Inoltre, sul fronte degli incentivi prevede contributi più elevati per l’acquisto di un auto elettrica da parte di chi rottama un veicolo Euro 0/2 (o in alternativa viene proposto un voucher di 600 € da spendere per la mobilità sostenibile, trasporti pubblici, car sharing.)

Ci sono poi le osservazioni di un gruppo di associazioni ambientaliste – Legambiente, Wwf, Kyoto Club e Transport&Environment – le quali, pur sostenendo il provvedimento del governo, esprimono la preoccupazione che nella fascia dei 70-90 gr/km vengano incentivate auto diesel di piccola taglia che comporterebbero un peggioramento della qualità dell’aria. Le associazioni chiedono inoltre che gli incentivi vengano erogati solo a fronte della rottamazione di veicoli vecchi.

Per ricavare risorse destinate al decollo della mobilità elettrica ci sarebbe anche un’altra soluzione, più complessiva. Parliamo di una carbon tax che avrebbe il vantaggio di essere connessa ai consumi: i mezzi più efficienti e le percorrenze limitate sarebbero avvantaggiate.

Questa soluzione, peraltro, anche se pochi lo sanno, è già presente in Italia. Nel 1999 infatti, il ministro Ronchi propose una piccola tassazione del carbonio il cui aumento progressivo venne poi congelato a causa delle evoluzioni del prezzo del petrolio. Resta il fatto che ancora oggi entrano nelle casse dello Stato risorse che potrebbe essere utilizzate per compensazioni fiscali e per sostenere la mobilità elettrica, come avvenne nel 2000 quando 180 milioni di € vennero destinati ad interventi ambientali.

Introducendo una tassa di 10 €/t CO2, il suo impatto sarebbe proporzionale ai consumi penalizzando le auto energivore. Mediamente l’incremento sarebbe di soli 5-15 centesimi € al giorno, 3 caffè al mese, e l’incasso da destinare alla mobilità sostenibile supererebbe il mezzo miliardo di euro l’anno, una cifra che potrebbe servire anche per eventuali compensazioni.

Certo una carbon tax avrebbe più senso se applicata a livello europeo, soprattutto se estesa alle industrie non coinvolte nell’ETS, ma per ottenere questo risultato occorrerebbe il consenso di tutti gli Stati, motivo che spiega la mancata adozione di questo strumento.

L’articolo di Gianni Silvestrini è stato originariamente pubblicato su Formiche.net

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