Auto elettrica, cosa bolle in pentola con la fusione Fca-Psa

Via libera all'operazione dalle rispettive assemblee degli azionisti. Opportunità e rischi per l'industria automobilistica in rapida evoluzione.

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Che fine faranno le fabbriche tradizionali di auto a benzina e diesel con il boom delle auto elettriche?

La domanda rimbalza tra i costruttori di veicoli impegnati a costruire (o a rallentare) il futuro della mobilità “alla spina” e ripensare gli investimenti produttivi per mettere sul mercato vetture a zero emissioni di CO2, con un’attenzione crescente verso le tecnologie digitali (soprattutto i sistemi di guida autonoma).

La fusione tra Fca e Psa

Così entrambe le assemblee degli azionisti di Fiat-Chrysler e Peugeot-Citroen hanno dato via libera, lunedì 4 gennaio 2021, alla fusione tra Fca e Psa che darà vita al quarto gruppo automobilistico mondiale, con oltre 8 milioni di auto vendute nel 2019, 400.000 dipendenti e oltre 180 miliardi di euro di fatturato.

Stellantis, questo il nome della nuova società, punta a realizzare sinergie annuali per 5 miliardi di euro, grazie in particolar modo all’integrazione dei vari stabilimenti industriali (senza chiusure di fabbriche) e delle piattaforme modulari su cui sviluppare i futuri modelli 100% elettrici e ibridi plug-in.

Le piattaforme modulari sono il cuore delle strategie commerciali delle case auto, che da una sola “architettura” di base riescono a produrre decine di modelli diversi, con motori tradizionali a benzina-diesel, propulsori 100% elettrici e varianti ibride da ricaricare alla presa di corrente.

Psa, in particolare, metterà a disposizione di FCA la sua piattaforma CMP (Common Modular Platform), sviluppata per supportare la produzione di modelli compatti dei suoi marchi – Peugeot, Citroën, DS, Opel, Vauxhall – sia con motori termici convenzionali sia con batterie al litio.

Fca, invece, possiede dieci marchi: Abarth, Alfa Romeo, Chrysler, Dodge, Fiat, Fiat Professional, Jeep, Lancia, Ram e Maserati.

Fiat-Chrysler è partita più in ritardo rispetto a molti concorrenti nella corsa dell’auto elettrica, e sta cercando di recuperare terreno.

Ha lanciato la prima 500 totalmente elettrica, stretto un accordo con Engie per offrire soluzioni e servizi di mobilità elettrica, inoltre testerà l’uso di colonnine intelligenti per la ricarica bidirezionale delle auto (tecnologia V2G: vehicle-to-grid), presso lo stabilimento di Mirafiori.

Lo scorso settembre, Fca ha ottenuto una nuova linea di credito da 485 milioni di euro dalla Banca europea per gli investimenti, con cui finanziare progetti per l’auto elettrica nel periodo 2020-2023.

Tornando a Stellantis, entro l’estate sarà presentato il piano industriale con tutti gli obiettivi del nuovo gruppo, che sarà guidato da Carlos Tavares in veste di amministratore delegato e manterrà tutti i 15 marchi attuali delle due società.

Primo azionista di Stellantis sarà Exor (14,4%), holding della famiglia Agnelli presieduta da John Elkann. L’attuale amministratore delegato di Fiat-Chrysler, Mike Manley, diventerà il numero uno di Stellantis per le Americhe.

Ricordiamo che il progetto di fusione era iniziato a ottobre 2019 con una nota congiunta dei due consigli di amministrazione e la firma due mesi dopo, a dicembre, del memorandum d’intesa (nei mesi successivi le due società hanno rinegoziato alcuni termini finanziari dell’accordo originario).

Mentre lo scorso dicembre 2020 era arrivato il via libera dalla Commissione europea alla fusione.

Toyota, Bosch e il rischio di stranded asset

Fusioni come quella tra Fca e Psa evidenziano quanto l’industria automobilistica debba cambiare pelle, sempre più minacciata dal rischio dei cosiddetti “stranded asset”.

Questi ultimi sono dei “beni produttivi incagliati”, vale a dire, degli impianti industriali obsoleti, non più remunerativi: una fabbrica di auto benzina-diesel che si vendono in numero assai inferiore rispetto al passato, è un esempio di potenziale stranded asset.

Ecco perché i maggiori costruttori di auto stanno abbracciando in pieno la sfida dell’elettrico, riconvertendo le proprie industrie – come sta facendo Volkswagen – oppure stanno cercando di difendere lo status quo puntando su una transizione più “morbida” e annacquata.

Va letta così la “sparata” di mister Toyota, Akio Toyoda, che a metà dicembre in una conferenza stampa ha criticato la corsa dei produttori verso i modelli a batteria.

In sostanza, Toyoda ha affermato che una crescita troppo rapida dell’auto elettrica rischia di far collassare l’industria automobilistica e di far aumentare le emissioni di anidride carbonica, poiché in Giappone gran parte dell’energia elettrica proviene dalle centrali a gas e carbone.

E nei giorni scorsi, in un’intervista al quotidiano tedesco Stuttgarter Nachrichten, il presidente del consiglio di sorveglianza di Bosch, Franz Fehrenbach, ha dichiarato di non condividere la preferenza accordata dall’Europa all’auto elettrica.

L’auto elettrica, secondo il colosso tedesco che produce componenti per autovetture, non può essere considerata neutrale per quanto riguarda le emissioni, perché l’energia usata per caricare la batteria proviene ancora in buona parte da fonti fossili e bisogna anche considerare l’impatto ambientale della produzione di batterie.

Peccato che tanti studi scientifici dimostrano il contrario, vale a dire che l’auto 100% elettrica è molto più pulita del diesel nel ciclo complessivo di vita e utilizzo quando si pesano nel modo corretto i diversi parametri in gioco (si veda questo articolo con le analisi di RSE che smontano la tesi di chi si oppone all’elettrico).

Occupazione e made in Asia

Ricordiamo, infine, che secondo una recente ricerca di Boston Consulting Group, per costruire un’auto elettrica serve quasi la stessa quantità di lavoro e manodopera che per costruire un modello a benzina/diesel della stessa tipologia.

Il rischio, in termini soprattutto di occupazione, per le case automobilistiche, è che una quota rilevante del valore aggiunto nella filiera si sposti sempre più verso i fornitori di celle e batterie, che in questo momento sono in massima parte asiatici.

Si spiega così il tentativo europeo di investire in super-fabbriche di batterie nel vecchio continente: l’obiettivo è strappare all’Asia il predominio in una fetta decisiva della filiera produttiva dell’elettrico.

E poi molto dipende dalle strategie adottate dai costruttori auto: affidare la produzione di batterie e di componenti elettronici in outsourcing (a fornitori terzi), o produrre il più possibile in casa?

Di conseguenza, le case auto dovranno pianificare eventuali riduzioni della forza lavoro e riqualificare una parte dei lavoratori per impiegarli nelle linee produttive dedicate ai veicoli elettrici.

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