Anche il greenwashing uccide il clima. No alla pubblicità del settore oil&gas

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Per fermare la pubblicità ingannevole delle aziende fossili su stampa, Tv ed eventi vari si stanno raccogliendo le firme per una Iniziativa dei Cittadini Europei. Tutti possono ancora firmarla.

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“Il greenwashing è un assassino del clima”. Con questo testo su un vessillo giallo di Greenpeace è apparsa a Venezia l’attrice inglese Emma Thompson (nella foto, pubblicata da The Guardian).

Un modo di denunciare l’ipocrisia dell’industria del fossile e la sua responsabilità nella crisi climatica, come ha spiegato in un suo duro articolo su The Guardian.

La famosa attrice ha appoggiato apertamente la campagna dell’associazione ambientalista che sta raccontando come le più grandi compagnie petrolifere e del gas europee utilizzino raffinate tecniche di marketing per convincere l’opinione pubblica e i consumatori di essere rispettosi dell’ambiente, quando è vero il contrario. E per far valere questa loro storytelling sponsorizzano iniziative di vario tipo, inclusa l’informazione.

Stampa, televisione, social media, eventi sportivi e culturali sono “comprati” da queste oil&gas company, per non parlare della politica, con l’obiettivo di ritardare il processo di decarbonizzazione: ‘ritarda e inganna’ è il concetto spiegato dall’attrice. “Si stanno falsamente dipingendo come alleati provando così a prolungare la scadenza della loro obsoleta attività”, scrive sulla testata britannica.

Anche gli esperti climatici e della scienza, come pure l’Ipcc, si sono accorti dell’impatto di questa comunicazione e così più di 450 scienziati hanno firmato una lettera chiedendo alle agenzie di pubbliche relazioni e di pubblicità di smettere di lavorare con le aziende di combustibili fossili e di diffondere disinformazione sul clima.

Per fermare questo circolo vizioso e impedire alle multinazionali dei combustibili fossili di fare informazione ingannevole, c’è una proposta di legge europea che punta a vietare la pubblicità e la sponsorizzazione dei combustibili fossili nell’Unione, simile a quanto accaduto con il tabacco venti anni fa.

Da circa un anno infatti è in corso una petizione ICE (Iniziativa dei Cittadini Europei) lanciata nell’autunno 2021 da Greenpeace e da altre organizzazioni, che si chiuderà tra pochi mesi e che tutti possono firmare.

Questo tipo di call to action è uno strumento ufficiale di partecipazione diretta alla politica dell’Unione Europea. Se in un anno di tempo verrà raggiunto l’obiettivo di 1 milione di firme raccolte – con un minimo raggiunto in almeno sette paesi membri – la Commissione Europea è obbligata a esprimersi in merito all’Iniziativa dei Cittadini, esponendo le sue conclusioni giuridiche e politiche e l’eventuale azione che intende intraprendere.

Un’azione sempre più urgente, visto che le aziende del fossile si inseriscono ovunque nei flussi di comunicazione di massa con contenuti spesso falsi che pretendono di riflettere valori di sostenibilità e rispetto dell’ambiente suscitando un certo appeal sull’opinione pubblica. Ma tutto ciò altera la percezione che si ha di queste imprese, creando anche confusione su cosa è sostenibile e cosa non lo è, impedendo al cittadino di compiere scelte consapevoli e realmente sostenibili.

Nell’ambito di un rapporto sul greenwashing pubblicato da Circonomia lo scorso giugno, che riguarda anche altre tipologie di imprese (istituti di credito inclusi) sull’impatto che le decisioni degli acquirenti e le affermazioni dei produttori hanno sull’intero sistema ambientale, la Commissione europea ha pubblicato un’indagine a tutela dei consumatori nella quale si afferma che nel 42% dei casi vi era motivo di ritenere che le affermazioni erano esagerate, false o ingannevoli.

Delle 344 dichiarazioni analizzate è emerso che nel 37% dei casi esse contenevano formulazioni vaghe e generiche, come “cosciente”, “rispettoso dell’ambiente”, “sostenibile”, con lo scopo di suscitare nei consumatori l’impressione, priva di fondamento, di un prodotto senza impatto negativo sull’ambiente, mentre nella metà dei casi, il venditore non aveva fornito ai consumatori informazioni sufficienti per valutare la veridicità di tali affermazioni.

Queste pratiche di mistificazione informativa hanno naturalmente delle ricadute negative sia in termini di reputazione aziendale, che in termini economici nel caso in cui le imprese incorrano in sanzioni pecuniarie.

In particolare, le aziende quotate che se si rendono protagoniste di greenwashing corrono ache il rischio di subire danni significativi alla propria capitalizzazione. Ma visti i loro elevatissimi profitti, non siamo ancora di fronte ad un vero deterrente nei confronti di tali strategie pro-fossili.

Basti pensare a Eni, simbolo del greenwashing nazionale. Già nel 1992 la controllata statale partecipò alla prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull’ambiente organizzata dalle Nazioni Unite con lo slogan “Eni per uno sviluppo sostenibile”, rimarcando la sua responsabilità verso le generazioni future attraverso l’implementazione di processi industriali e ambientali innovativi al fine di salvaguardare l’energia e le risorse “per chi verrà dopo di noi”.

Una strategia comunicativa che negli anni è rimasta pressoché immutata. La multinazionale è stata anche multata nel 2020 dall’antitrust per 5 milioni di euro per “messaggi pubblicitari ingannevoli“, contenuti nella pubblicità sul carburante ENI Diesel+. Anche questa sanzione non ha fermato l’attività di greenwashing del cane a sei zampe, che si è estesa fino al green carpet di Sanremo 2022, sponsorizzato da Plenitude.

Nel sistema dell’informazione c’è anche chi predica bene, ma razzola maluccio. Nel nostro piccolo, noi di QualEnergia.it, per esempio, abbiamo sempre escluso la pubblicità di aziende del settore oil&gas e la promozione di iniziative legate al settore delle fonti fossili.

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