Sistema elettrico, sfatiamo qualche mito sull’inaffidabilità delle rinnovabili

Perché integrare quantità maggiori di elettricità da Fer è una sfida meno impegnativa di quel che molti credono.

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Le rinnovabili come eolico e fotovoltaico, in quanto fonti non programmabili e dalla produzione discontinua, possono avere solo un ruolo marginale, se vogliamo avere un sistema elettrico affidabile.

Questo pregiudizio è ancora vivo tra chi sostiene che non possiamo liberarci troppo in fretta del gas o addirittura che per decarbonizzare serve il nucleare.

Certo, chi nel 2005, quando le Fer davano il 14% della domanda elettrica italiana, diceva che il nostro sistema elettrico non avrebbe potuto accogliere in sicurezza oltre il 20% di rinnovabili, oggi deve ammettere che la nostra rete regge benissimo a una percentuale del 38% (toccata nel 2020 mentre nel 2021 è stata 36,4%), tanto più dopo la prova shock della pandemia, superata brillantemente (si veda quel che ci raccontava Terna). Intanto nelle ultime settimane è accaduto che per tre giorni (tra cui uno lavorativo) le Fer fossero al 50% dei consumi elettrici.

Ma il mito che una rete alimentata in prevalenza con energia pulita sia meno affidabile resiste. Vale dunque la pena di ricordare che non è affatto così, citando alcuni dati raccolti in un articolo sulla rivista della Yale School of the Environment da Amory Lovins, noto cofondatore del Rocky Mountain Institute e professore di ingegneria della Stanford University e M. V. Ramana, fisico e direttore del Liu Institute for Global Issues alla School of Public Policy and Global Affairs della University of British Columbia.

L’indicatore più utilizzato per descrivere l’affidabilità della rete è la durata media dell’interruzione di corrente subita da ciascun cliente in un anno, “System Average Interruption Duration Index” (SAIDI). Sulla base di questa metrica, ricordano i due nell’articolo, la Germania, dove le rinnovabili forniscono quasi la metà dell’elettricità del paese, vanta una rete che è una delle più affidabili in Europa e nel mondo.

Dal 2006, la quota di produzione di elettricità rinnovabile della Germania è quasi quadruplicata, mentre il suo tasso di interruzione di corrente è stato quasi dimezzato: nel 2020, il SAIDI della rete tedesca era di sole 0,25 ore in Germania.

Solo il Liechtenstein (0,08 ore) e la Finlandia e la Svizzera (0,2 ore) hanno fatto meglio in Europa, mentre Paesi come la Francia (0,35 ore) e la Svezia (0,61 ore), entrambi molto più dipendenti dall’energia nucleare, hanno fatto peggio, per vari motivi. Gli Usa, dove Fer e nucleare forniscono ciascuno circa il 20% dell’elettricità, hanno avuto un tasso di interruzione cinque volte superiore a quello della Germania: 1,28 ore nel 2020 (qui i dati, fonte World Bank).

Lovins e Ramana usano la Germania anche per smentire la credenza che le rinnovabili richiedano di essere bilanciate da più produzione da fossili programmabili. Tra il 2010, l’anno prima dell’incidente nucleare di Fukushima, e il 2020, la produzione tedesca da combustibili fossili è diminuita di 130,9 TWh e quella nucleare di 76,3 TWh, ricordano. Questi sono stati più che compensati dall’aumento della produzione da fonti rinnovabili (149,5 TWh) e dal risparmio energetico che ha ridotto i consumi di 38 TWh nel 2019.

Al 2020, le emissioni di gas serra della Germania erano diminuite del 42,3% rispetto ai livelli del 1990, superando l’obiettivo del 40% fissato nel 2007. Le emissioni di CO2 del solo settore energetico tedesco sono diminuite da 315 milioni di tonnellate nel 2010 a 185 milioni di tonnellate nel 2020.

Dunque, mentre la percentuale di Fer sulla domanda elettrica in Germania è cresciuta costantemente, l’affidabilità della sua rete è migliorata, mentre la generazione convenzionale e le emissioni sono calate.

Altro pregiudizio verso FV ed eolico è che, data la loro produzione discontinua e non programmabile, non possano essere alla base di un sistema che deve fornire elettricità 24 ore su 24, 7 giorni su 7, tutto l’anno.

Sebbene l’output variabile sia una sfida, non è né un problema nuovo né particolarmente difficile da gestire, ricordano Lovins e Manana: nessun tipo di centrale elettrica funziona 24 ore su 24, 7 giorni su 7, 365 giorni all’anno, e la gestione di una rete implica sempre la gestione della variabilità della domanda e della produzione in ogni momento.

Le variazioni stagionali della disponibilità idrica e, sempre più, la siccità, riducono la produzione di elettricità dalle centrali idroelettriche. Le centrali nucleari devono essere chiuse per il rifornimento o la manutenzione, e le grandi centrali fossili e nucleari sono in genere fuori uso dal 7% al 12% circa del tempo: tra i casi citati c’è quello delle centrali nucleari in Francia, che in media nel 2020 sono rimaste ferme per 115,5 giorni (fonte World Nuclear Report) e nel complesso hanno generato meno del 65% dell’elettricità che avrebbero teoricamente potuto produrre (e quest’anno le cose non stanno affatto andando meglio, come abbiamo riportato).

I moderni gestori di rete – spiegano Lovins e Manana – oggi puntano su diversificazione e flessibilità, piuttosto che sulle fonti di generazione baseload, nominalmente stabili ma meno flessibili. I portafogli di impianti diversificati e basati sulle rinnovabili non falliscono in modo così massiccio, duraturo o imprevedibile come le grandi centrali termiche.

La rete può rapidamente compensare le variazioni prevedibili dell’eolico e del fotovoltaico con altre rinnovabili, di altro tipo o in altri luoghi. Grazie anche alle batterie e alla moderna elettronica di potenza, ad esempio si è gestita in modo affidabile la rete dell’Australia meridionale, alimentata solo con sole e vento per giorni e giorni, senza carbone, senza idroelettrico, senza nucleare e con un apporto assolutamente marginale del gas.

Oltre a batterie e gestione del parco di generazione, ricordano poi i due esperti, le Fer possono contare su un grande alleato quale la flessibilità della domanda o demand response: negli, Usa ad esempio, mostra uno studio, ci sono 200 GW di potenziale flessibilità di carico conveniente, che potrebbe essere realizzato entro il 2030.

Alcune prove, ricordano, suggeriscono un potenziale ancora più grande: una simulazione oraria della rete del Texas del 2050 ha rilevato che otto tipi di risposta alla domanda potrebbero eliminare la ripida rampa della domanda di energia in prima serata, quando la produzione solare diminuisce e i carichi domestici aumentano. Ad esempio, l’aria condizionata con accumulo di ghiaccio negli edifici, oltre alla ricarica intelligente da e verso la rete delle auto elettriche, che sono parcheggiate il 96% del tempo, potrebbero consentire al Texas nel 2050 di utilizzare il 100% di elettricità rinnovabile senza bisogno di batterie giganti.

Come anticipato, un’altra opzione per stabilizzare la rete con l’aumento della generazione da Fer è la diversificazione, sia geografica che tecnologica: eolico onshore, eolico offshore, FV, solare termico, geotermia, idroelettrico, biomasse. L’idea è semplice: se una di queste fonti, in un luogo, non genera elettricità in un dato momento, è probabile che lo facciano altre (si veda questo studio).

Anche una delle sfide più difficili, quella degli inverni europei, è superabile con una necessità di storage molto inferiore a quel che si penserebbe: secondo i principali operatori di rete tedeschi e belgi l’Europa avrebbe bisogno solo di una o due settimane di energia rinnovabile stoccata, pari al 6% della produzione invernale.

La conclusione è semplice: le reti elettriche possono gestire molta più energia rinnovabile a costi contenuti. Alcuni paesi europei anche con poca potenza idroelettrica ottengono già da metà a tre quarti della loro elettricità da fonti rinnovabili con un’affidabilità della rete migliore rispetto agli Stati Uniti, concludono Lovins e Manana: è tempo di superare i miti.

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