Siccità e clima hanno impatti sempre più forti sulla produzione di energia

I rischi climatici colpiscono in particolare impianti idroelettrici, centrali a gas e nucleari. La disponibilità di acqua è rilevante anche per la generazione di idrogeno verde e l'estrazione di materie prime critiche. Le analisi di Cdp focalizzate sull'Italia.

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La siccità che ha colpito l’Italia nel 2022 ha avuto un impatto molto negativo sulla produzione idroelettrica e, più in generale, ha portato allo scoperto alcuni fattori di rischio per la transizione energetica.

Difatti, il settore energetico ha una forte dipendenza dalle risorse idriche. In caso di siccità prolungata, sono a rischio non solo gli impianti idroelettrici, ma anche le centrali a gas e quelle nucleari, che richiedono molta acqua per i processi di raffreddamento.

In prospettiva, la scarsa disponibilità d’acqua potrebbe mettere in difficoltà anche le nuove filiere delle tecnologie pulite, ad esempio la produzione di idrogeno verde con elettrolizzatori.

Sono i temi al centro di un documento pubblicato dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp), Disponibilità idrica e produzione di energia: rischi per la transizione?”.

L’innevamento ai minimi storici nei primi mesi del 2023 – determinato dalle temperature miti e dalle scarse precipitazioni invernali – e la recente alluvione in Emilia Romagna, “sono il tratto più evidente del cambiamento climatico”, si legge nel brief.

Il cambiamento climatico, infatti, contribuisce ad aumentare la frequenza e intensità di eventi meteorologici estremi di segno opposto.

Dai dati riguardanti i mesi iniziali del 2023, emerge che la quantità d’acqua presente nella neve al suolo, ad aprile, era del 64% inferiore rispetto agli ultimi 12 anni.

E l’inverno 2021-2022 è stato il più secco e mite degli ultimi 30 anni, con un deficit medio di precipitazioni del 65%.

Qui entrano in gioco le vulnerabilità del sistema energetico. Ci si chiede come garantire la sicurezza delle forniture di energia, in uno scenario dove la siccità è destinata a diventare un fenomeno “strutturale”, permanente, non più un’emergenza circoscritta.

Certo, osservano gli autori, le piogge e alcune nevicate ad alta quota tra maggio e giugno hanno migliorato la situazione, che però resta potenzialmente critica. Molto dipenderà dagli eventi climatici dei prossimi mesi: durata e intensità delle ondate di calore estive, andamento di temperature e precipitazioni nell’autunno-inverno 2023-2024.

Intanto, il 2022 è stato un “annus horribilis” per l’idroelettrico, sceso al 10% circa della generazione elettrica nazionale, il valore più basso dagli anni ’50, con 17 TWh persi in confronto al 2021.

La magra del Po, lo scorso anno, evidenzia Cdp, ha causato lo stop di grandi centrali termoelettriche, come quelle di Moncalieri e Sermide, rimaste a corto d’acqua per il raffreddamento degli impianti.

Mentre il nucleare francese ha registrato un -38% ad agosto e settembre, rispetto al 2021, a causa della siccità. Tanto che la Francia ha dovuto importare energia elettrica per la prima volta dal 1980.

In sostanza, scrivono gli autori, “la disponibilità di risorsa idrica potrebbe diventare un fattore dirimente per valutare la fattibilità fisica, economica e ambientale dei progetti energetici”.

Vale anche per la produzione di idrogeno green: con le tecnologie attuali, servono in media 9 kg d’acqua per ogni kg di idrogeno prodotto.

Altro aspetto da considerare: alcune materie prime strategiche per le tecnologie pulite – il litio ad esempio – richiedono ingenti quantità d’acqua per l’estrazione e il trattamento.

Inoltre, queste materie prime, spesso, sono concentrate in aree geografiche con un elevato stress idrico, come il Cile e l’Australia.

Cosa si può fare? Le strade percorribili sono diverse, tra queste: migliorare l’efficienza delle centrali elettriche e utilizzare sistemi di raffreddamento avanzati (a ciclo chiuso o ad aria), aumentare il riciclo-riuso dell’acqua non potabile per differenti impieghi.

Occorre poi intervenire sugli impianti idroelettrici esistenti. Ad esempio, si suggerisce di ridurre l’interrimento delle dighe, dovuto agli accumuli di sedimenti nei bacini.

Si stima, infatti, che a fronte di circa 13,6 miliardi di metri cubi di capacità teorica negli invasi, 4 miliardi siano resi inutilizzabili dai depositi interrati, quasi un terzo del totale.

Necessario poi fare interventi di manutenzione e ammodernamento, “attraverso anche il ricorso a nuove tecnologie e alla digitalizzazione”. Ciò al fine di “migliorare la producibilità e la flessibilità degli impianti, riuscendo a garantire buone rese anche in condizioni di minore disponibilità della risorsa idrica, attraverso una regolazione puntuale e precisa dei flussi d’acqua e di energia in funzione dei fabbisogni” (si veda anche: L’idroelettrico italiano può favorire nuovi investimenti per 9 miliardi di euro).

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