Prima la moratoria sulle rinnovabili in Sardegna. Poi, il drastico no, alla bozza del Mase sulle aree idonee considerata offensiva e inaccettabile dalla presidente Todde, che si «è sentita presa in giro come rappresentante della Sardegna» e che ha ribadito l’altolà al governo: «voi dovete starne fuori, noi dobbiamo decidere come vogliamo crescere dal punto di vista energetico, come dobbiamo organizzare il nostro territorio e come dobbiamo organizzare la produzione di energia sulla base della nostra economia».
In entrambi i casi si tratta infatti delle ennesime repliche di tantissime decisioni, tutte riconducibili a un fenomeno definito “complesso d’insularità”.
Per i sardi, abitare in un’isola viene infatti vissuto come una sfortuna e, invece di valorizzare questa diversità, sfruttata con successo in situazione analoghe in giro per il mondo (le contigue Baleari docent), si cerca di cancellarla, volendo a tutti i costi riprodurre lo stesso modello di sviluppo adottato nell’area continentale dell’Italia.
Conferma il diffuso complesso di insularità la mobilitazione che, fin dall’inizio, ha unito tutti gli schieramenti politici, il mondo delle imprese, le associazioni di categoria, la cultura, lo sport e le università nella raccolta delle firme per sollecitare un emendamento aggiuntivo all’art. 119 della Costituzione:
«Lo Stato riconosce il grave e permanente svantaggio naturale derivante dall’insularità e dispone le misure necessarie a garantire una effettiva parità e un reale godimento dei diritti individuali e inalienabili».
Emendamento con alcune smorzature nei toni («La Repubblica riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità») diventato rapidamente legge costituzionale, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 267 del 15 novembre 2022, grazie all’iniziativa dei parlamentari sardi, che nei loro interventi a Roma replicano costantemente il complesso d’insularità, compito cui sono stati richiamati dalla Todde anche in difesa del categorico “no” alla proposta per le aree idonee.
D’altronde, le mie ripetute esperienze dirette e indirette con i problemi della Sardegna forniscono altrettante conferme dell’insularità vissuta come una deminutio capitis, una perdita di prestigio, cui è d’obbligo opporre sempre e comunque adeguate rivendicazioni.
Il caso del Sulcis Iglesiente
Della miniera del Sulcis dovetti occuparmi più volte negli anni ‘80. Già allora era evidente che il suo carbone non è assimilabile a quello normalmente utilizzato come combustibile. Nell’antracite il contenuto di zolfo e di ceneri è sempre compreso all’incirca fra 0,5% e 2%, con il limite superiore che sale intorno al 4% nel litantrace.
Invece, dalle miniere del Sulcis usciva un prodotto, non a caso definito “carbone sub-bituminoso a lunga fiamma”, con più del 6% di zolfo e circa il 20% di ceneri.
Un obbrobrio sotto il profilo economico, dato il ridotto potere calorifico per unità di peso, e ancor più sotto quello ambientale.
Contro l’evidenza delle cifre, in Sardegna ancora negli anni ‘80 l’opposizione alla chiusura della miniera fu così ampia da impedirla. Per il carbone del Sulcis fiorirono proposte più o meno peregrine di soluzioni tecnologiche che avrebbero dovuto giustificarne l’estrazione.
Per esempio, non era commercialmente disponibile un desolforatore in grado di trattare fumi con un contenuto di SO2 una volta e mezza quello del peggior litantrace. Uno sviluppato e realizzato ad hoc avrebbe pertanto avuto un costo esorbitante.
Quando le soluzioni proposte caddero tutte sotto l’implacabile mannaia dei numeri, si puntò sull’installazione di una nuova centrale, alimentata dal sedicente carbone del Sulcis e ovviamente incentivata.
Sulla fine ingloriosa di questo ennesimo tentativo di impedire la chiusura della miniera hanno certamente contato le considerazioni contenute nella memoria che il presidente dell’Autorità per l’energia illustrò nel corso di un’audizione presso la VI e la X Commissione della Camera.
Il progetto non risponde «ad esigenze del sistema elettrico. Nella Regione Sardegna non si prefigura, infatti, la necessità di sostegni specifici allo sviluppo di capacità produttiva. Non si può anzi escludere che lo sviluppo di nuova capacità produttiva poco flessibile, e utilizzata a pieno regime poiché incentivata, possa rappresentare un problema per la gestione in sicurezza del sistema».
Tirate le somme, le risorse finanziarie dissipate in più di 50 anni nella difesa ostinata dell’indifendibile, invece di destinarle a progetti di reale sviluppo dell’isola, assimilano le vicende della Carbosulcis a una piéce del teatro dell’assurdo.
Lo conferma quanto accadde a seguito di un mio suggerimento avanzato durante uno dei confronti con autorità sarde: proprio per la vocazione turistica dell’isola, un’alternativa redditizia era la trasformazione della miniera in un museo minerario, dove i visitatori, guidati da ex-minatori, avrebbero potuto rivivere tutte le attività di estrazione del carbone. I miei interlocutori insorsero come un sol uomo, accusandomi di vilipendere il duro lavoro dei minatori sardi. Per non aumentare la tensione, rinunciai a ricordare che l’ormai ridotta estrazione di carbone era essenzialmente affidata a minatori polacchi.
Finalmente (però solo il 31 dicembre 2018) si chiuse ufficialmente l’attività produttiva della Carbosulcis; ma già due anni prima erano stati fermati il taglio e l’estrazione del carbone. E oggi, sul sito si legge che «Iglesias ospita un museo minerario dove è possibile rivivere tutte le attività di estrazione grazie alla presenza di imponenti resti industriali e alle visite guidate svolte proprio da ex minatori che raccontano in maniera coinvolgente le loro esperienze di vita, di fatica e di vissuto quotidiano».
Il caso del GALSI
A riprova del fatto che la storia è una maestra spesso disattesa, stiamo assistendo alla replica della medesima telenovela per il Gasdotto Algeria-Sardegna-Italia (GALSI), cui non riuscirono a mettere la parola fine nemmeno le conclusioni dello studio “Approvvigionamento energetico della Regione Sardegna (Anni 2020-2040)”, effettuato da RSE nel 2020 su mandato del MiSE (vedi QualEnergia.it).
Lo lessi con molta attenzione, condividendone l’impostazione e i risultati; non per partito preso.
All’epoca del suo primo governo (maggio 1996-21 ottobre 1998) Prodi, dovendo già allora fare i conti con la richiesta di metanizzare la Sardegna, nominò una commissione con l’incarico di effettuare uno studio di fattibilità, di cui fui chiamato a far parte. Non avevamo il supporto di una struttura per dimensioni e qualità comparabile a RSE. Ciò nonostante, l’impostazione e le conclusioni raggiunte furono identiche a quelle odierne.
La coincidenza non è occasionale. Chiunque si sia occupato di progetti di infrastrutture per il trasporto di fluidi energetici (gasdotti o reti di teleriscaldamento) sa che sono economicamente convenienti solo quando il numero di utenze per chilometro è sufficientemente elevato.
Ebbene, a distanza di più di 20 anni, lo studio di RSE confermò che, a meno di ipotizzare inverosimili livelli di consumo interno, in Sardegna la domanda continuerà a essere troppo bassa per rendere raggiungibili nel 2040 volumi dell’ordine di 1,5 miliardi di m3/anno, il minimo richiesto per rendere rimunerativa la dorsale di trasporto interna.
Incuranti di questa conclusione, alcuni parlamentari sardi presentarono un emendamento a un decreto “Semplificazioni” per promuovere “un’adeguata rete di trasporto gas naturale”, per di più “hydrogen ready”, cioè con un non banale sovraccosto rispetto alle valutazioni RSE.
E quando il MiSE giudicò l’emendamento inammissibile, altri parlamentari sardi definirono la decisione «incomprensibile», basata su «un presunto squilibrio costi-benefici» destinata a creare «un danno economico e ambientale irreparabile per l’economia della Sardegna».
«Chiediamo che venga convocato al più presto un tavolo di confronto […] affinché l’argomento venga discusso seriamente, collegialmente e alla luce del sole. Il progetto della dorsale […] permetterebbe alla Sardegna non solo di colmare un gap infrastrutturale ma di porsi all’avanguardia nella transizione energetica Paese».
Evidentemente ai parlamentari sardi poco importava che il sovraccosto della dorsale gas, per di più maggiorato dalla proposta di renderla idonea al trasporto di idrogeno, avrebbe aggravato – senza alcun vantaggio per i sardi – l’onere aggiuntivo che i consumatori italiani avrebbero dovuto pagare per rendere – giustamente – la tariffa del gas in Sardegna uguale a quella esistente nel resto del Paese.
Anche un secondo rapporto di RSE, uscito l’anno successivo al primo, presumibilmente richiesto su pressione di politici sardi, ne ha riconfermato sostanzialmente le conclusioni. Anzi, rivaluta a 2 miliardi di euro (contro oltre 1 miliardo del primo rapporto) i risparmi stimati nello scenario “elettrico” della Sardegna (sviluppo minimo del gas e maggiore elettrificazione, soprattutto in campo civile e terziario) (vedi anche “Conviene di più il gas o il tutto elettrico? Nuovi scenari a confronto per la Sardegna“).
Sul quotidiano economico “Italia Oggi” del 31 gennaio 2023 esce un articolo intitolato “Sardegna, il gasdotto riparte. Dovrebbe attraversare l’isola dopo l’intesa Italia- Algeria”, in cui si esprime preoccupazione perché non si era verificata l’economicità dell’opera prima di firmare l’accordo che la premier Meloni aveva appena sottoscritto ad Algeri.
Il caso dell’accoppiata rinnovabili-batterie
La prima asta del mercato della capacità per il 2024 aveva fatto emergere il ruolo che potevano assumere gli accumuli elettrochimici nella decarbonizzazione di un territorio vasto come la Sardegna.
Dei 38.000 MW complessivamente assegnati, avevano infatti particolare rilevanza quelli sardi, 500 MW di batterie aggiudicati a Enel e ripartiti tra 247 nella parte settentrionale dell’isola e 253 in quella meridionale.
In tal modo, si leggeva in un comunicato dell’Enel, la capacità richiesta veniva messa a disposizione “senza dover investire in nuovi impianti a gas, compiendo così un passo concreto per la trasformazione della Sardegna in Isola Verde”, confermando le dichiarazioni fatte dall’allora AD Starace in un’intervista a “La Nuova Sardegna” del 9 luglio 2021. «Analizzando il PNRR ci siamo così domandati: ma è possibile che un’area vasta e importante del paese possa già adesso saltare il gas e arrivare prima degli altri a vedere il suo parco energetico e industriale veramente green? […] Noi riteniamo di sì».
Di conseguenza, aveva ipotizzato “l’installazione, a Tyrrhenian Link in esercizio, di 1 GW di batterie e circa 4/5 GW di rinnovabili in più rispetto a quanto abbiamo adesso”. Con investimenti di 15 miliardi e 110.000-115.000 nuovi posti di lavoro entro il 2030.
Il risultato della gara aveva posto il suo sigillo su questa strategia, come mise in risalto “Il Sole 24 Ore” del 23 febbraio 2022. Nel commento alla notizia, il quotidiano di Confindustria aveva infatti scritto che l’isola è destinata a decarbonizzarsi, grazie a un mix di nuove interconnessioni elettriche, di rinnovabili e di batterie.
Viceversa, nel commentare l’orientamento dell’Enel scrissi: “Non sono altrettanto convinto che la reazione delle istituzioni e dei corpi intermedi sardi sarà positiva. Il risultato dell’asta, che rafforza la decisione, già presa da Enel, di non riconvertire a cicli combinati gli impianti termoelettrici sardi, azzera la prospettiva di un volume consistente di gas destinato alla generazione elettrica nell’isola. Di conseguenza, introduce ulteriori dubbi sull’utilità di una dorsale per il trasporto del metano” (“Le batterie in Sardegna e il ruolo del gas”, “Staffetta Quotidiana”, 25.02.2022).
In questa circostanza la protesta sarda, prendendo probabilmente a prestito da Eduardo De Filippo la frase «ha da passà ‘a nuttata», venne sostituita da un interessato e significativo silenzio, che ha pagato. Oggi a capo dell’Enel non c’è più Starace e, come premier, Draghi è stato sostituito dalla Meloni che ha deciso di realizzare il GALSI.
Il caso di chi sardo non è
Considero sintomatica dello stato d’animo con cui in Sardegna vengono accolte prospettive come quelle indicate da Starace la replica del più autorevole esponente dell’industria sarda alla relazione “Un futuro energetico per la Sardegna” che, su invito, presentai in un convegno a Cagliari il 7 ottobre 2019.
Volendo creare le condizioni per un confronto sereno sui contenuti, ero stato conservativo nel prendere in considerazione le possibili opzioni tecnologiche e sono rigorosamente rimasto all’interno del perimetro che mi era stato assegnato (quindi nessun cenno all’impatto della crescita delle rinnovabili sulla domanda di gas).
La replica del presidente della Confindustria sarda fu di una stringatezza tacitiana: i problemi della Sardegna li possiamo capire solo noi sardi e non accettiamo lezioni da chi sardo non è.
L’opportunità energetica in bilico
I dati del 7° Censimento generale Istat dell’agricoltura del 2022, relativo all’annata agraria 2019-2020 (dal 1/11/2019 al 31/10/2020), confermano che circa il 24% della superficie agricola non è coltivata.
E in buona parte viene lasciata incolta perché gli investimenti richiesti non sarebbero compensati dal prezzo di vendita della produzione.
Consapevole di questo dato di fatto, quando nel 2020 come presidente del Coordinamento FREE costituii un gruppo di lavoro sull’agrovoltaico, la mia attenzione fu immediatamente rivolta a due progetti fotovoltaici presentati da una impresa sarda (Progetika), attiva nel settore green con un buon portafoglio di ordini, che aveva già raggiunto un’intesa coi proprietari di aree agricole incolte nel comune di Uta, ubicato all’interno dell’area metropolitana di Cagliari.
La potenza nominale del fotovoltaico di UTA 1 era pari a 31,522 MWp, e a 25,948 MWp quella di UTA 2, con una copertura in un caso di circa 16,5 ettari su una superficie totale impegnata di circa 57, nell’altro di 15,5 su 42,6 ettari, perché si trattava di impianti con un’altezza dal suolo e un distanziamento tali da non incidere sulla normale attività agricola. Insomma, la tipologia ammessa anche dall’attuale Decreto limitativo del fotovoltaico in agricoltura.
Inoltre, l’ombra generata dai pannelli fotovoltaici non solo avrebbe protetto le piante durante le ore più calde, ma permesso un consumo di acqua più efficiente. Infatti, le piante esposte direttamente al Sole richiedono un utilizzo di acqua maggiore e più frequente rispetto alle piante che si trovano all’ombra dei pannelli, per le quali, essendo meno “stressate”, è sufficiente un quantitativo d’acqua minore.
Infine, i due progetti prevedevano di utilizzare parte delle risorse finanziarie rese disponibili dalla produzione elettrica per far crescere sul terreno sottostante trifoglio o erba medica, che non richiedono irrigazioni, essendo sufficienti gli apporti idrici naturali.
Trattandosi di specie azotofissatrici, non hanno bisogno di fertilizzanti azotati, mentre la simbiosi dell’azoto apportato con microrganismi presenti nelle radici rende il terreno naturalmente concimato: la condizione ideale per ospitare le colture più redditizie, tra cui quelle biologiche.
Tutti i fattori positivi che ho qui sintetizzato erano dettagliatamente illustrati nelle due relazioni tecniche per la richiesta della Via, presentate nel 2020.
L’insieme di queste previsioni mi indussero a seguire l’evoluzione dei due progetti anche dopo la pubblicazione del position paper che concluse l’attività del gruppo di lavoro.
Per UTA 2, la deliberazione N. 11/72 del 24.03.2021 della Regione Autonoma della Sardegna ha deciso di sottoporre l’impianto ad una “ulteriore procedura di V.I.A.”, e la successiva deliberazione N. 11/73 dello stesso giorno arriva alle medesime conclusioni per UTA 1.
Poiché sui due progetti non avevo trovato deliberazioni successive, dopo un paio di tentativi andati a vuoto, ho ricevuto informazioni aggiuntive grazie ad Attilio Piattelli, il quale mi ha messo in contatto con una persona che aveva partecipato alla loro elaborazione, a sua volta disponibile a darmele.
Trascrivo qui, di seguito con alcune modifiche che non ne alterano il contenuto, il testo inviatomi.
Creazione di un modello di riqualificazione agricola a minor emissione di CO2
Si era scelta un’area ovviamente ad uso agricolo ma in prossimità di una zona industriale, perché era ed è nelle nostre intenzioni creare un HUB di sperimentazione agricola a minor emissione di CO2, con l’intento di catturare quella prodotta dall’attività industriale quasi adiacente (Agglomerato industriale Macchiareddu CACIP), per trasformarla in e-fuel.
L’impianto di UTA 2 è previsto su un’area agricola al momento utilizzata per la produzione di legname (alberi di eucaliptus), destinati alla combustione, immettendo in atmosfera svariate polveri, composti organici, ossidi e CO2.
Con la realizzazione dell’impianto agrovoltaico si eliminerebbe questo impatto, producendo foraggere tra le stringhe, da destinare a vari tipi di animali e frutta, senza nessuna immissione di CO2 in atmosfera. I due progetti sono ancora in iter autorizzativo, e oltre alla richiesta della VIA, l’iter ha subìto rallentamenti a causa del vuoto normativo per questo tipo di impianti.
Tuttavia, gli ultimi decreti in materia di rinnovabili dovrebbero aver chiarito gli aspetti tecnici, nonché quello, molto discusso, relativo alle aree idonee (entrambi i progetti secondo la legge 199 dovrebbero ricadere in questa tipologia).
Attraverso una variante, potremmo perfezionare i due progetti con l’inserimento di accumuli di ultima generazione e di nuove tecnologie per lo stoccaggio della CO2, e con la realizzazione nell’area industriale di un impianto per la produzione di e-fuel.
Così si conclude il reso ricevuto.
«Per quanto riguarda la moratoria regionale che bloccherebbe ogni attività in tal senso, stiamo cercando di capire se i progetti con iter già avviati come quelli in discussione rientrano oppure no. Tuttavia, non siamo contrari alla moratoria, che da un certo punto di vista frenerebbe quella che ormai si può definire un’invasione alla terra Sarda, una corsa all’installazione a tutti i costi, ma siamo contrari al fatto che la stessa faccia di tutta l’erba un fascio, generalizzando eccessivamente, senza considerare le differenze sostanziali tra i vari progetti presentati, e quindi penalizzando quelli come i nostri, che sono veramente etici».
Un progetto che andrebbe valorizzato come caso esemplare di integrazione tra produzione agricola ed energetica a minimo impatto climatico, per di più proposto da un’azienda sarda, e che dopo quattro anni rischia di finire nel calderone della moratoria, conferma per l’ennesima volta che l’orgogliosa difesa, da parte della Todde, dell’autonomia nel decidere come far crescere dal punto di vista energetico il territorio sardo, è una cortina di nebbia retorica a copertura del complesso di insularità.
Considerare l’insularità solo un grave e permanente svantaggio porta inevitabilmente a condannarsi a un futuro dove, invece di puntare su uno sviluppo che valorizzi le proprie potenzialità, in Sardegna continuerà a dominare l’assistenzialismo.
L’articolo è stato pubblicato sul n.3/2024 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “Sardegna, Sole&Vento: vietati”