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Quanta energia serve per vivere bene?

Di quanta energia avrebbero bisogno i più poveri del mondo per vivere una vita dignitosa? E quale dovrebbe essere la soglia massima che non migliora lo sviluppo umano? Con le rinnovabili ce la possiamo fare?

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Una delle obiezioni ricorrenti di chi nega cambiamento climatico e necessità di cambiare il sistema energetico è questa: “con le rinnovabili non potremo mai dare abbastanza energia ai poveri, così che escano dalla loro condizione”.

In questi casi verrebbe voglia di rispondere “perché, con carbone, petrolio e gas, ci si è riusciti?”.

Ma bisogna riconoscere che questo tipo di argomentazioni tocca un punto importante e trascurato: di quanta energia, non solo elettricità, carburanti e combustibili, ma anche quella contenuta negli oggetti, dai frigoriferi alle toilette, e nelle infrastrutture di base, dalle strade agli acquedotti, avrebbero bisogno i più poveri del mondo per vivere una vita dignitosa?

Solo una volta conosciuto questo livello, allora potremmo veramente valutare se sia raggiungibile o meno dalla produzione energetica.

La risposta alla domanda l’ha appena data, con un articolo su Nature Energy, il professor Narasimha Rao, analista dei sistemi energetici per l’International Institute for Applied Systems Analysis a Vienna.

«Abbiamo calcolato quanta energia servirebbe per dare la possibilità a ognuno dei 3 miliardi di poveri, quelli che vivono con meno di 3 dollari al giorno, di condurre una “vita decente”, intendendo con essa il raggiungimento di tutti gli obbiettivi di sviluppo umano sostenibile previsti dall’Onu per il 2030: dall’eliminare la malnutrizione al dare a tutti abitazioni di buona qualità, dal garantirel’ educazione scolastica a maschi e femmine fino al provvedere infrastrutture di comunicazione per muoversi, informarsi e condurre una vita sociale», dice Rao.

Nel calcolo sono stati quindi inclusi non solo i consumi diretti, ma anche quelli necessari per la coltivazione di cibo per una dieta sana, produzione di oggetti indispensabili a migliorare la vita, funzionamento dei trasporti pubblici e costruzione di strade e scuole e così via.

«Applicando questi criteri a India, Brasile e Sud Africa, tre paesi diversi per clima, economia e situazione sociale, è risultato che per condurre una vita decente, agli indiani poveri basterebbero 3.055 kWh procapite annui, ai sudafricani 4.500 e ai brasiliani 6.100».

Consumi bassissimi, se si considera che l’italiano medio usa ogni anno 35.000 kWh.

E l’analisi risulta ancora più sorprendente se si considera che, in teoria, per ottenere questa “vita decente” per tutti i poveri non ci sarebbe neanche bisogno di aumentare l’attuale produzione energetica in quei tre paesi: i consumi procapite sudafricani sono infatti già di 31.000 kWh annui, quelli brasiliani di 17.000 e gli indiani di 7.000, mentre la media planetaria è di 21.000 kWh.

«Ovviamente nel calcolo dei consumi energetici pro capite finiscono anche attività che non ritornano ai cittadini locali, come l’energia assorbita da miniere, industria, trasporti e agricoltura che lavorano per l’export», precisa Rao.

«E poi, ancora più importante, c’è la disuguaglianza economica: anche in India, Brasile e Sud Africa, moltissimi sono sopra e alcuni molto, molto più sopra dei livelli della “vita decente”. Ma attenzione, i livelli che abbiamo calcolato, non sono il massimo a cui tutti dovremmo aspirare, ma solo il minimo che dovrebbe essere garantito a ogni umano sul pianeta».

E la soglia massima di consumi energetici?

Ma quale sarà, allora quel “livello massimo a cui aspirare”? Conoscerlo sarebbe fondamentale per capire dove si stanno dirigendo i consumi energetici globali, soprattutto ora che, secondo gli economisti della Brookings Institution, oltre il 50% dell’umanità è ormai “classe media” e quindi aspira a livelli di vita simili a quelli dei paesi industrializzati.

Rao e colleghi intendono quantificare quel livello in una futura ricerca, ma una sua valutazione era già contenuta in uno studio del 2016 pubblicato su Energy for Sustainable Development, da un gruppo di ricercatori coordinati dall’economista Iñaki Arto, del Centro basco di studio del cambiamento climatico.

In quel caso Arto e colleghi avevano incrociato due dati: il consumo di energia pro capite delle varie nazioni e l’indice di sviluppo umano dell’Onu, o Hdi, che combina i livelli di reddito, educazione, longevità, salute e socialità negli Stati, in un singolo numero che varia da 0 a 1, con 1 indicante la “società perfetta”.

Per ottenere dati sui consumi procapite più aderenti allo scopo dello studio, ai consumi individuali per elettricità e combustibili, nella ricerca è stata sommata anche l’energia contenuta negli oggetti e servizi che il cittadino medio acquista durante l’anno, così che si possa vedere anche l’energia che consumiamo attraverso le importazioni dall’estero: un indice chiamato “impronta energetica”.

È risultato che le nazioni che hanno basse impronte, hanno anche bassi Hdi, e che aumentando i consumi energetici, vedono anche crescere in parallelo il loro Hdi, a dimostrazione di quanto l’energia sia importante per lo sviluppo umano.

Questo però non accade più in nazioni “sviluppate”, quelle cioè che hanno Hdi superiori a 0,8 (l’Italia è a 0,88): per i loro cittadini medi, aumentare l’impronta energetica, cioè consumare e comprare ancora di più, non serve molto a far crescere lo sviluppo umano.

Così si possono avere nazioni molto sviluppate, Hdi sopra 0,9, con consumi energetici diversissimi: al giapponese medio, per esempio, bastano 54.000 kWh l’anno, contro i 73.000 dello svedese medio e i 98.000 procapite dell’impronta pro capite degli statunitensi, ma non si può dire che giapponesi o svedesi siano “sottosviluppati” rispetto agli americani.

Inoltre, a conferma che i consumi energetici da un certo livello di sviluppo in su non sono più importanti per la qualità della vita, il fatto che negli ultimi anni nelle nazioni con Hdi sopra gli 0,8, lo sviluppo umano è ancora cresciuto, nonostante una diminuzione dell’impronta, grazie alla maggiore efficienza energetica e in economie sempre meno basate sull’industria pesante.

«Tutto questo ci indica che un’impronta energetica pro capite intorno ai 30.000 kWh, cioè quella della Polonia, che ha un Hdi di 0,811 basta per portare a un soddisfacente livello di sviluppo umano», conclude Arto.

Con quale energia soddisfare i bisogni umani

Ma veramente potremo dare a tutti quell’energia, del 50% superiore all’attuale media globale, agli 8 miliardi di abitanti del mondo, o, ancora più arduo, ai 10 miliardi previsti per il 2050?

Certamente con l’80% di energia proveniente dai combustibili fossili attuale, come accade oggi, no di certo: sfasceremmo il clima planetario. Ma la conversione alle fonti rinnovabili offre una speranza di riuscirci.

Prima di tutto perché produrre calore e movimento ad esempio con l’elettricità solare è molto più efficiente che usando carbone, petrolio o gas. Secondo Mark Jacobson dell’Università di Stanford, un mondo a energia 100% rinnovabile, ne richiederebbe il 50% di meno a parità di servizi offerti.

Secondariamente, perché la “offerta solare” è veramente immensa. Per produrre 30.000 kWh per 10 miliardi di persone, considerando 200 kWh l’anno di produzione per metro quadro di pannello solare, servirebbero 1,5 milioni di kmq di terreno coperto da moduli, pari alla superficie di un sesto del deserto del Sahara. Se poi veramente servisse metà energia rispetto ad oggi, ne “basterebbero” 750mila di kmq, cioè come la superficie del Cile.

E visto che, ovviamente, all’energia solare si affiancherebbero poi tutte le altre fonti rinnovabili, sembra proprio che sia questa l’unica strada, veloce e realistica, per dare abbastanza energia a tutti per condurre una buona vita.

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