Portafogli senza emissioni di gas serra, l’impegno della grande finanza

CATEGORIE:

Trenta gestori patrimoniali con portafogli da 9mila mld di $ si impegnano a fissare obiettivi al 2030 per ridurre allo zero netto entro il 2050 le emissioni associate alle loro attività finanziarie. Sperando che non sia solo “greenwashing”, perché al momento i fatti dicono ben altro.

ADV
image_pdfimage_print

Un gruppo di trenta importanti gestori patrimoniali con oltre 9.000 miliardi di dollari investiti in tutto il mondo ha deciso di fissare obiettivi intermedi per ridurre allo zero netto entro il 2050 le emissioni associate alle attività presenti nei loro portafogli.

Hanno chiamato l’iniziativa “Net Zero Asset Manager”.

Il gruppo – che comprende gestori patrimoniali leader come AXA, UBS, Schroders, BMO Global, Legal & General, Robeco e altri – ha promesso di allineare i portafogli di investimento con gli sforzi globali per limitare l’aumento della temperatura media a 1,5 °C rispetto all’era preindustriale, come stabilito nell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici.

La loro dichiarazione d’impegno sottolinea “l’urgente necessità di accelerare la transizione verso un sistema globale di emissioni nette uguali a zero, con [noi] gestori patrimoniali a fare la nostra parte per contribuire a raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi e garantire una transizione giusta”.

Aderendo all’iniziativa, i firmatari si impegnano a lavorare con i loro clienti per raggiungere obiettivi di decarbonizzazione coerenti con lo zero netto entro il 2050 o prima. I gestori hanno deciso in particolare di fissare un obiettivo intermedio per il 2030 per la percentuale di asset da gestire in linea con tale obiettivo generale di zero netto – riferendosi alle tre categorie di emissioni fissate dal Protocollo sui gas a effetto serra, denominate Scope 1, Scope 2 e Scope 3.

L’ambito di applicazione 1 comprende le emissioni dirette da fonti possedute o controllate.

Lo Scope 2 copre le emissioni indirette derivanti dalla produzione di elettricità, vapore, riscaldamento e raffreddamento acquistati e consumati dalle società.

Lo Scope 3 comprende tutte le altre emissioni indirette che si verificano nella catena del valore di un’azienda.

I membri di Net Zero Asset Manager hanno accettato di rivedere i propri obiettivi intermedi per gli Scope 1 e 2 e, per quanto possibile, le emissioni della catena del valore dello Scope 3 almeno ogni 5 anni, col fine di aumentare la percentuale di patrimonio gestito coperto da obiettivi netti pari a zero fino a includere il 100% degli investimenti.

La realizzazione dell’impegno prevede che venga data priorità al raggiungimento di riduzioni delle emissioni dell’economia reale all’interno dei settori e delle aziende in cui investono gli asset manager; questo hanno indicato le sei reti globali di investitori istituzionali verdi che hanno generato l’iniziativa, fra cui l’Asia Investor Group on Climate Change (AIGCC), CDP, Ceres, Investor Group on Climate Change (IGCC), Institutional Investors Group on Climate Change (IIGCC) e Principles for Responsible Investment (PRI).

Stephanie Pfeifer, socia fondatrice e amministratrice delegata dell’IIGCC, ha detto che gli investitori aderenti all’iniziativa si impegnano ad “agire, non solo a parole“, e che i loro sforzi potrebbero “contribuire a far pendere la bilancia a favore della transizione economica globale verso lo zero netto”.

“La portata e il significato dell’adesione dei gestori patrimoniali all’iniziativa Net Zero Asset Managers invia un chiaro segnale al settore che la potenza di fuoco finanziaria degli investitori istituzionali si impegnerà a compiere progressi reali verso un futuro a zero netto e resiliente”, ha detto Pfeifer in una nota.

“In occasione del quinto anniversario dell’accordo di Parigi, estendiamo un invito a tutti gli asset manager ad unirsi a noi nell’impegno, nella collaborazione e nella coesione che guiderà questa iniziativa e la transizione verso lo zero netto”, ha concluso.

Nei prossimi mesi sono attesi ulteriori impegni da parte di altri nomi di spicco del risparmio gestito, mentre l’iniziativa nel suo complesso è destinata ad aderire alla campagna “Race to Zero” sostenuta dall’ONU, che riunisce gli impegni netti verso emissioni zero di una serie di reti e iniziative di primo piano.

Altri importanti investitori che aderiscono già da oggi all’iniziativa sono Anaxis Asset management, Clean Energy Ventures, DWS, Gulf International Bank Asset Management, Inherent Group LP, Kempen Capital Management, Wellington Management e WHEB.

Solo “greenwashing”?

Vorremmo che non si trattasse solamente di dare una verniciata di verde ai propri investimenti, senza incidere veramente sulle emissioni.

Come vi abbiamo raccontato in un precedente articolo, l’equilibrio fra soldi e ambiente ancora sfugge a molti investitori istituzionali e, da parte loro, le più grandi banche del mondo hanno veicolato più di 2,74 trilioni di dollari (2.740 miliardi di dollari) nei combustibili fossili dal momento in cui l’accordo di Parigi sul clima è stato firmato ufficialmente, nell’aprile del 2016 (vedi anche Predicare bene, razzolare male: dalle banche trilioni alle fossili anche dopo Parigi).

Quest’anno, le prese di posizione sul cambiamento climatico sono diventate di rigore per il settore finanziario. Dalla sciarpa tematica sul surriscaldamento globale di Larry Fink, capo di BlackRock a Davos, a diverse grandi banche di Wall Street che hanno annunciato piani di sostenibilità.

Anche grazie agli effetti della pandemia e via via che aumenta la massa gestita da fondi a tema ambientale, sociale e di governance, o ESG, l’idea di trattare l’ambiente in maniera seria sembra avere solo vantaggi e nessuno svantaggio, sia di immagine che di rendimento.

Ma in mezzo a tanto fermento verde, il greenwashing rischia di nascondersi dietro l’angolo. L’amministratore delegato di Citigroup, Michael Corbat, scriveva ad agosto che se i clienti delle banche non riducono adeguatamente le loro emissioni di gas serra, “allora dobbiamo avere il coraggio di andarcene”. Tuttavia, secondo i dati raccolti da Rainforest Action Network, nel 2019, Citigroup è stata il secondo più grande finanziatore mondiale del settore dei combustibili fossili. È una situazione ripetutasi spesso in passato.

Ma non tutto potrebbe essere greenwashing da parte della comunità finanziaria internazionale.

Come indicato in un precedente articolo, sebbene non si tratti direttamente di gestori patrimoniali, la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) ha deciso di troncare i prestiti a tutti i progetti sui combustibili fossili, compreso il gas, a partire dal 2022. E poiché spesso gli investimenti si fanno sia con soldi di istituti di credito di matrice “pubblica” e multilaterale, come la BEI, sia con risorse private, il fatto che la BEI sottrarrà il proprio contributo alle fossili potrebbe avere effetti a cascata anche sulla disponibilità degli investitori istituzionali privati.

Staremo a vedere se i gestori patrimoniali saranno effettivamente capaci di modificare i propri modelli di investimento per far risaltare di più e meglio la natura degli investimenti a basse emissioni, che potrebbero avere rendimenti finanziari inferiori ma che tendono ad essere meno volatili e più costanti nel tempo.

Storicamente, infatti, le principali compagnie dei combustibili fossili hanno goduto di rendimenti più elevati rispetto al costo del capitale, ma con una volatilità altrettanto elevata. Nell’ultimo decennio, però, i loro rendimenti sono diminuiti, di pari passo con l’indebolimento dei fondamentali di mercato e di un sempre maggiore indebitamento, soprattutto nel settore del petrolio e del gas di scisto.

Per contro, i produttori elettrici, per esempio, fra i principali operatori di energia fotovoltaica ed eolica, pur registrando una redditività inferiore, hanno goduto anche di costi di finanziamento e di una volatilità minore, secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia.

Per far tornare i conti climatici ed economici, e rispettare i propri nuovi impegni, i gestori patrimoniali dovranno integrare tali attese nei propri modelli di investimento.

ADV
×