Dal vortice di polemiche seguito al blocco della cessione dei crediti legati ai bonus edilizi sono emerse due possibili soluzioni: una per i crediti passati e una per eventuali crediti futuri, se si deciderà di consentirne ancora la cessione.
Per i crediti maturati negli ultimi anni e ora incagliati nei cassetti fiscali di aziende e cittadini, il governo si è detto disposto a studiare una forma di compensazione fra crediti e debiti fiscali tramite gli F24.
Poiché il problema della banche è che hanno esaurito la propria capienza fiscale e quindi non riescono più a monetizzare a favore dei clienti i crediti fiscali di questi ultimi, il meccanismo potrebbe consistere nel permettere alle banche di utilizzare i crediti fiscali in pancia a imprese edili e proprietari di immobili per pareggiare i debiti fiscali dei propri clienti attraverso gli F24.
In altre parole, una quota delle tasse pagate dai clienti delle banche con gli F24, invece di finire nelle casse dell’erario, verrebbe utilizzata dalle banche per pagare imprese e cittadini titolari dei crediti fiscali.
Per il futuro, invece, se si riaprirà almeno parzialmente la porta a nuove cessioni del credito, queste riguarderebbero solo una fascia limitata di soggetti, con redditi familiari inferiori a una cifra da stabilire, che potrebbe aggirarsi attorno ai 30mila euro annui.
Ma non si capisce bene la logica del governo
Entrambe le soluzioni sopra prospettate hanno un pregio generale e un difetto particolare.
Il pregio generale è il riconoscimento indiretto da parte del governo che le cessioni del credito sono necessarie, sono la cinghia di trasmissione senza la quale il Superbonus si inceppa, senza la quale i benefici energetici ed economici ricercati con tale misura riescono a materializzarsi solo molto limitatamente.
Il difetto particolare è che entrambe le soluzioni contraddicono in qualche modo le ragioni date dal governo per bloccare le cessioni dei crediti, e cioè il fatto che tali cessioni aumentano il debito dello Stato, che il Superbonus ha alimentato le frodi, che ha fatto impennare i prezzi dei materiali edili, che ha avvantaggiato solo i ricchi, eccetera.
La compensazione fra crediti e debiti fiscali contraddice la necessità espressa dal governo di non far pesare i crediti fiscali sul debito pubblico.
Tale compensazione, infatti, peserebbe fin da subito sul passivo dello Stato, poiché si concretizza solo se lo Stato rinuncia a incamerare delle tasse, né più né meno come succedeva con la semplice cessione del credito a terzi. Bastava allora semplicemente allargare la platea di chi può acquistare i crediti.
Da un punto di vista della neutralità fiscale, sarebbe stato più logico puntare sulla cartolarizzazione dei crediti incagliati, cioè sull’impacchettamento dei crediti in titoli liberamente scambiabili dagli investitori, cosa che avrebbe costituito una soluzione di mercato, estranea ai vincoli di bilancio. Il problema, in questo caso, è che spesso, soprattutto in Italia, le soluzioni sono di mercato solo a parole.
Oltre ai tempi più lunghi e a un calcolo potenzialmente sfavorevole del valore dei crediti per renderli appetibili al mercato, una cartolarizzazione prestava il fianco al fatto che si volesse comunque coinvolgere Sace con delle garanzie pubbliche per il debito o Cassa depositi e prestiti per l’acquisto dei crediti.
In ogni caso, il problema del maggiore debito pubblico, scacciato dalla porta, rientra dalla finestra, perché sia le compensazioni con gli F24 che eventuali cartolarizzazioni con garanzie o partecipazioni statali fanno rientrare tali operazioni nel perimetro della Pubblica amministrazione.
Tutto ciò al lordo delle decisioni su cui Istat e Eurostat dovrebbero accordarsi entro marzo per stabilire se le cessioni dei crediti vadano contabilizzate da subito come maggiore debito o se debbano essere considerate deficit annuale da spalmare su più anni.
Rischio prezzi ed equità sociale… quello c’è comunque
Una delle proposte fatte al governo dalle parti sociali, soprattutto i sindacati, consiste nel limitare lo sconto in fattura e la cessione del credito ai redditi più bassi, ai condomini popolari e agli incapienti, che altrimenti non riuscirebbero ad anticipare il 100% delle somme o a godere delle detrazioni. Anche cittadini e imprese delle zone di ricostruzione post-terremoti potrebbero rientrare fra le fasce da agevolare.
Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, non si è voluto sbilanciare in merito, confermando solo che il governo porrà “rimedio alla questione dei crediti incagliati, ma da qui in poi la cessione dei crediti non riparte“, aggiungendo però che “il Parlamento è sovrano e può decidere su percentuali e fasce di reddito” nell’ambito di eventuali emendamenti da approvare durante la conversione in legge del decreto Pnrr.
I criteri di equità sociale sopra indicati, apparentemente congrui e volti ad evitare che ad avvantaggiarsi del Superbonus siano soprattutto i più ricchi, vanno confrontati con il panorama dei redditi dichiarati. Nell’ultima indagine Istat su “Reddito e condizioni di vita” in Italia, relativa al 2020, è indicato che circa il 76% dei redditi lordi individuali non supera i 30mila euro annui.
La metà dei redditi lordi individuali è compresa fra 10mila e 30mila euro l’anno. Oltre un quarto è sotto i 10mila euro e soltanto il 3,7% supera i 70mila euro.
Le soglie reddituali come criterio di accesso ad una detrazione, purtroppo, in Italia rischiano di essere inefficaci. L’evasione fiscale è notevole e i redditi dichiarati spesso non fotografano la situazione reale. È plausibile che in questo contesto sarebbero comunque molti i finti-poveri che potrebbero riuscire ad accedere alle detrazioni e alle cessioni del credito, se verranno in qualche misura ripristinate. E se così fosse la presunta pressione che il Superbonus avrebbe esercitato sui prezzi edili sarebbe destinata a continuare.
Come uscire fuori dal polverone?
Quanto detto non vuol dire che bisogna arrendersi all’evasione fiscale e rinunciare ad applicare principi di equità sociale. Oppure che non serve fare attenzione al debito pubblico o ai prezzi.
Serve invece a riportare l’attenzione su quello che il polverone di strumentalizzazioni degli ultimi mesi e giorni ha offuscato. E cioè che le misure per evitare le frodi sono in buona parte già state adottate per quanto riguarda il Superbonus e che per evitare le frodi sugli altri bonus sarebbe più utile rafforzare i controlli sul meccanismo, piuttosto che distruggerlo. E serve a dire che il problema del debito, così come posto dal governo, è mal riposto e distorto.
Per tentare di uscire dal polverone, sarà bene ricordare qualche dato e fare qualche distinzione.
La questione delle frodi
Le frodi legate ai bonus edilizi hanno riguardato le varie misure nelle seguenti percentuali: 46% bonus facciate, 34% ecobonus, 9% bonus locazioni e 8% sismabonus.
Ma solo il 3% ha interessato il Superbonus, secondo i dettagli forniti una decina di giorni fa dal direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, nell’audizione di fronte alle commissioni parlamentari sul Decreto Sostegni-ter.
Tra i 4,4 miliardi di euro di frodi per crediti di imposta inesistenti, la parte del leone la fanno dunque il bonus facciate, che non esiste più, e l’ecobonus, mentre le truffe riguardanti il Superbonus sono molto più limitate.
Invece di bloccare le cessioni del credito su tutti i bonus, si potrebbe pensare di estendere le misure antifrodi già valide per il Superbonus agli altri programmi di detrazione fiscale, senza tagliargli le gambe.
La questione dei rincari
Riguardo al rincaro dei materiali edili che il Superbonus avrebbe causato, secondo gli ultimi dati ufficiali di Istat e Eurostat, risalenti al maggio 2022, l’indice dei prezzi delle costruzioni in Italia è salito del 9,7%, rispetto ad una media Europa del 20%.
I prezzi sono dunque cresciuti molto di più in molti altri Paesi europei, dove il Superbonus non esiste. Lo stesso indice ha segnato rialzi del 24,1% in Germania e del 19% in Spagna. La Scandinavia ha visto rincari tra il 23% e il 32%, mentre in Repubblica Ceca e Ungheria si è arrivati, rispettivamente, a aumenti del 43% e del 74%.
Dunque, non può essere stato solo il Superbonus a provocare i rincari. Un ruolo preponderante lo hanno avuto i colli di bottiglia produttivi e logistici post-pandemia a livello globale prima e il caro-energia (gas in particolare) seguito all’invasione russa dell’Ucraina.
La questione del debito pubblico
Il debito pubblico è ovviamente importante. Ma le cifre menzionate dalla premier Giorgia Meloni circa il peso fiscale del Superbonus sembrano pretestuose, poiché riferiscono solo il lordo della spesa pubblica e non includono i benefici generati dal Superbonus in termini di crescita economica e maggiori entrate fiscali che tale crescita genera.
Secondo l’Istat, nel secondo trimestre 2022, solo il settore delle costruzioni ha contribuito per il 16% alla crescita dell’economia italiana.
Secondo un recente studio di Nomisma, l’impatto economico complessivo del Superbonus sull’economia italiana è stato pari a 195,2 miliardi di euro, con un effetto diretto di 87,7 miliardi e uno indiretto di 39,6 miliardi, cui si aggiungono 67,8 miliardi di indotto, rispetto ai 105 miliardi di euro di costi citati dalla premier.
Il centro ricerche Cresme, invece, stima che l’anno scorso siano stati creati 587mila occupati in Italia, dei quali 311mila direttamente nel settore delle costruzioni.
Questi e altri studi condotti sugli impatti economici e di bilancio del Superbonus indicano in modo sostanzialmente univoco che il meccanismo della detrazione fiscale del 110% e la cinghia di trasmissione della cessione dei crediti, senza la quale le detrazioni rimarrebbero al palo, hanno avuto nel complesso molti più effetti positivi che negativi.
E anche il presunto ammontare troppo elevato della detrazione è, in realtà, una questione già risolta.
“Il problema del volume eccessivo di spese fiscali a carico dello Stato era già avviato a soluzione con il ripido décalage al 70% e al 65% previsto per gli anni 2024-2025. L’attuale governo ha voluto anticipare al 2023 la riduzione al 90% che, al netto dell’attualizzazione, equivale a un incentivo effettivo del 70%. Questo livello assicura di per sé un drastico ridimensionamento dell’appetibilità dell’incentivo e uno sgonfiamento del fenomeno bonus”, ha spiegato Virginio Trivella, coordinatore del comitato tecnico e scientifico di Rete IRENE.
Qualche conclusione
Sul tema del debito vedremo come Istat e Eurostat decideranno di contabilizzare le cessioni dei crediti e le detrazioni dei vari bonus edilizi.
Rispetto a ciò, sarebbe il caso che il governo perorasse maggiormente la posizione secondo cui quelle per il Superbonus sono spesa produttiva, da trattare come investimento, in maniera diversa da un deficit per finanziare altre spese non produttive.
Lo Stato non pare cioè avere esborsi diretti effettivi, malgrado la collocazione formale delle cessioni dei crediti nelle caselle contabili delle maggiori passività pubbliche o del mancato gettito, con le ripercussioni negative che così hanno su deficit e debito.
La realtà è che lo Stato sta rinunciando a entrate che non si sarebbero mai materializzate se non fosse stato avviato il meccanismo del Superbonus. Oppure che comunque si sarebbero concretizzate in misura estremamente minore.
Sarebbe allora il caso di trovare assieme ad Eurostat modalità e categorie ragionieristiche più calzanti per incastonare tale realtà di fatto nella realtà contabile dell’Italia e degli altri Paesi.
Ribadiamo: senza la detrazione fiscale del 110% e senza la cessione del credito quelle entrate non ci sarebbero state o sarebbero state molto inferiori.
Quindi, lo Stato starebbe rinunciando a poco o a niente, né sta sostenendo effettivamente alcuna nuova spesa pubblica. Al contrario, beneficia del gettito Iva, Ires e dell’attività indotta dal Superbonus.