Tassa sul carbonio? I suoi effetti sconvolgerebbero l’attuale gerarchia economica. Per questo motivo non si farà mai….
In teoria è l’uovo di Colombo: il clima cambia a causa di un eccesso di emissioni di CO2 da parte delle attività umane, soprattutto a causa dell’uso massiccio di combustibili fossili? E allora rendiamo queste emissioni economicamente sconvenienti, così che le nazioni siano spinte a trovare strade alternative per fare a meno di quei combustibili.
In pratica, tassiamo carbone, petrolio e metano con una imposta globale, uniforme in tutto il pianeta, in modo che non ci sia chi non la applichi, lucrando così un ingiusto vantaggio competitivo.
Questa imposta renderà i fossili più costosi delle loro alternative, che così avranno finalmente modo di imporsi, mentre oggi devono competere in un mercato truccato, che mantiene i combustibili fossili artificialmente economici, scaricando sulle popolazioni i loro costi esterni: le malattie, le guerre, i danni ambientali e climatici a loro imputabili.
Questa “tassa sul carbonio” finora è stata però una sorta di araba fenice; tutti nel parlano ma nessuno la vede, se non in forme molto leggere e confinate localmente, come quelle approvate nei paesi scandinavi, dove peraltro non creano particolari problemi, essendo l’elettricità in quelle nazioni di derivazione idroelettrica, eolica e nucleare.
Della agognata “carbon tax” globale, invece, nessuna traccia. Un’assenza che ha contribuito non poco ai ritardi nella lotta al cambiamento climatico, visto che non lo si può contrastare efficacemente, se non si penalizza sul piano economico la sua principale causa.
Ma perché, visto che sarebbe una tassa uguale per tutti, le nazioni non hanno mai tentato di implementarla?
Una delle ragioni è che si dice sarebbe una zavorra per i poveri, sia all’interno degli Stati, che globalmente: l’idea è che siano le persone e gli Stati a più basso reddito ad aver particolarmente bisogno di energia economica, e che quindi aumentarne il prezzo penalizzerebbe soprattutto loro.
Ma è proprio così? Non si applica la carbon tax per questi nobili e altruistici motivi?
Ha cercato di capirlo Don Fullerton, professore di finanza all’Università dell’Illinois, ed ex dirigente di alto livello del Tesoro statunitense, con un articolo uscito su Review of Environmental Economics and Policy.
Nella sua analisi Fullerton ha calcolato l’impatto che avrebbe una carbon tax globale di 42 $/tonnellata di CO2 (una stima dei costi sociali del carbonio fossile, effettuata nel 2016 dalla Agenzia di protezione ambientale Usa), sull’economia di tutti i paesi del mondo, tenendo conto del loro reddito individuale, di quanta energia fossile pro capite usano e di quanto la loro economia dipenda dai combustibili fossili, o perché li esportano, o perché li usano per realizzare prodotti industriali.
«Quello che abbiamo scoperto, è che il panorama non è così chiaro, con i ricchi vincenti e i poveri che soffrono», dice Fullerton. «Le cose sono più complesse, con vincitori e perdenti all’interno delle varie categorie di paesi: a basso, medio e alto reddito».
Il punto è che i tre parametri considerati nella ricerca fanno variare molto l’impatto di una carbon tax, nazione per nazione.
«Per esempio, in paesi a reddito molto basso, ben poche persone hanno l’auto o usano combustibili fossili per cucinare e scaldarsi, e alcuni di questi paesi usano anche tante energie rinnovabili, soprattutto idroelettrico e biomassa. In questi casi l’impatto di una carbon tax, sarebbe relativamente lieve».
Al contrario – argomenta Fullerton – ci sono paesi ad alto reddito che non solo consumano tanti combustibili fossili individualmente, ma magari li esportano anche o producono beni ad alta intensità di CO2; questi, anche se ricchi, sarebbero pesantemente svantaggiati da una carbon tax.
«Tra i paesi poveri particolarmente avvantaggiati da una carbon tax, per esempio, ci sarebbe l’Etiopia, che ha una intensità di carbonio nella sua economia quasi nulla. Tra quelli molto svantaggiati, troviamo invece, oltre agli esportatori di petrolio, come la Nigeria, anche chi produce beni per l’export, usando molta energia fossile, come lo Zambia, o chi usa solo fonti fossili per generare elettricità, come Haiti».
Tra i grandi paesi in via di sviluppo, i cosiddetti Bric, una carbon tax metterebbe in difficoltà Cina e India, che hanno un’economia ad alta intensità di carbonio, e soprattutto la Russia, che oltre a esportare combustibili fossili, ha anche una industria pesante fortemente dipendente da carbone, petrolio e metano. Il vincitore, in quella categoria, sarebbe invece il Brasile che ha un sistema energetico basato fortemente su idroelettrico e biomasse, mentre il suo export non è ad alta intensità energetica.
«Paesi come Brasile o Etiopia non solo avrebbero conseguenze relativamente leggere, ma si troverebbero improvvisamente a essere molto competitivi sul panorama internazionale, attraendo investimenti e sottraendo fette di mercato a quelli che usano più combustibili fossili».
E fra i ricchi, chi guadagnerebbe e chi perderebbe alla lotteria della carbon tax globale?
«A perdere ovviamente in testa ci sarebbero i grandi esportatori di petrolio, tipo Arabia Saudita o Qatar, ma subito dopo quelli che non hanno differenziato le loro fonti con le rinnovabili, che hanno alti consumi energetici procapite e industrie molto energivore, come Usa, Giappone, Polonia, Israele. Subito dopo, fra i più penalizzati, Germania, Gran Bretagna e Italia», elenca Fullerton.
«I più avvantaggiati, invece sarebbero Francia, Svezia, Norvegia, Islanda e Svizzera. Naturalmente pagherebbero anche loro l’aumento dei costi dei combustibili per trasporti e riscaldamento, ma il fatto che le loro industrie, ad alto valore aggiunto e bassa intensità energetica, usino soprattutto elettricità da idroelettrico e nucleare, darebbe loro un notevole aumento netto di competitività».
In questa ottica non è forse un caso che il presidente francese Macron abbia tentato di introdurre un embrione di carbon tax a dicembre, 3 e 6 centesimi su benzina e gasolio, magari sperando di trascinare con il suo esempio il resto del mondo. Peccato che poi abbia dovuto ritirare in fretta e furia per le proteste dei gilet jaune.
«In effetti una carbon tax “pura” rischia di penalizzare i poveri all’interno delle nazioni sviluppate, visto che sono loro, in percentuale, a spendere di più per l’energia; per esempio perché devono fare i pendolari fra periferia e centro. Ma questo effetto può essere compensato da misure per redistribuire gli introiti della carbon tax fra i cittadini a basso reddito».
Questo tipo di redistribuzione, però, sarebbe più complicato da immaginare a livello internazionale, e certo non si può pensare ad “aiuti” verso paesi svantaggiati, come Usa, Cina o Russia.
Una carbon tax, quindi, sovvertirebbe l’ordine economico mondiale, rendendo meno competitivo chi non ha ancora “fatto i compiti” per disintossicare la propria economia dall’uso dei fossili, e più competitivo di chi invece, per lungimiranza o fortuna geografica, li ha già fatti.
Essendoci però nel primo gruppo paesi come Usa, Cina, India o Russia, cioè i “signori” economici, demografici e militari del mondo, aspettarsi che veda mai la luce una carbon tax globale, sembra essere un po’ come attendere l’arrivo di Babbo Natale.