Rispettare l’ambiente e ridurre la propria impronta del carbonio, per le imprese non è affatto solo una questione di etica o di immagine, ma sempre più un vantaggio competitivo.
Il mercato, infatti, tende a premiare le società che adottano pratiche virtuose e a penalizzare quelle che non lo fanno, sia a livello di prezzo delle azioni che di valore stesso dell’impresa, che può ridursi anche del 5,6% nel caso di società con una buona reputazione che incorrono in danni ambientali.
È quanto risulta da un’analisi dell’Osservatorio Climate Finance della School of Management del Politecnico di Milano, presentata oggi, venerdì 15 luglio.
In particolare, spiega una nota di sintesi della ricerca, si è analizzato come il mercato azionario abbia reagito all’aumento del prezzo per i certificati di emissione di anidride carbonica sul meccanismo europeo ETS (Emissions Trading Scheme).
Questo sistema, si ricorda, incentiva la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili imponendo un costo – l’acquisto di certificati da chi produce energia pulita in eccesso – a chi viceversa utilizza fonti più inquinanti, come carbone e gas.
“Considerando quasi 12.000 impianti di generazione di energia elettrica in Europa, relativi a imprese quotate e sottoposte a questa politica di scambio di emissioni (policy ETS) – spiega Vincenzo Butticè, vicedirettore dell’Osservatorio – si nota una forte correlazione tra il prezzo dei certificati ETS e il rendimento di mercato, in base alla carbon intensity della società: solo quelle che hanno un’impronta carbonica limitata, e dunque hanno investito in tecnologie verdi, beneficiano dell’aumento dei prezzi dei certificati ETS; al contrario, chi inquina è fortemente penalizzato”.
E i consumatori, come reagiscono nei confronti di aziende che si macchiano di danni ambientali?
Per rispondere a questa domanda, sono state analizzate, tra Italia, Francia, Regno Unito e Germania, 700 società quotate che nel periodo 2020-21 hanno presentato dati sul rischio reputazionale.
“Quello che si evince – continua Butticè – è che la riduzione di una ‘tacca’ nel rating reputazionale può comportare una riduzione del valore dell’impresa fino al -5,6%: le imprese virtuose, nel momento in cui si rendono responsabili di un incidente che comporta danni ambientali, vengono penalizzate dal mercato in maniera più consistente rispetto a quelle che non lo sono”.
Dunque, le aziende con una buona reputazione sono sollecitate a mantenerla.
I consumatori e in generale gli stakeholder possono quindi influenzare moltissimo le scelte aziendali, ad esempio per quanto riguarda le multinazionali che abbiano esternalizzato le attività produttive contando su minori costi di gestione e su politiche ambientali più permissive.
“La spinta alla mitigazione del cambiamento climatico influenza le strategie di reshoring e la composizione delle catene del valore globali – conferma Roberto Bianchini, direttore dell’Osservatorio – Abbiamo analizzato 126 multinazionali nel settore manifatturiero che avevano spostato le attività produttive all’estero. Ebbene, quelle che pubblicano un report di sostenibilità e sono originarie di Stati con politiche ambientali stringenti, e che dunque sono sottoposte al giudizio di stakeholders molto attenti al tema della sostenibilità, hanno una probabilità di rientrare nel Paese d’origine del 64% contro l’1,5% di media”, accorciando così di molto la filiera e adottando processi di gestione certificati.