Si annunciano nuove azioni legali delle associazioni ambientaliste contro alcuni regolamenti europei, considerati poco ambiziosi nei loro obiettivi per ridurre le emissioni di CO2 e pertanto inadeguati a sostenere le politiche Ue per il clima.
In particolare, nel mirino delle Ong è finito il regolamento Effort Sharing, che disciplina la riduzione delle emissioni di gas serra nei settori non coperti dal mercato ETS (Emissions Trading Scheme): edilizia, agricoltura, piccole industrie, rifiuti e trasporti (aviazione esclusa).
Due associazioni, CAN Europe e Global Legal Action Network, si legge in una nota pubblicata il 27 agosto, hanno presentato la loro ultima serie di argomentazioni legali scritte alla Corte generale dell’Unione europea, in un contenzioso “climatico” depositato a febbraio contro la Commissione europea.
Il regolamento “sulla condivisione degli sforzi” (abbreviato ESR, Effort Sharing Regulation) stabilisce per ogni Stato membro un obiettivo nazionale per la riduzione delle emissioni di CO2 entro il 2030 nei diversi settori citati sopra. Nel complesso, la norma copre quasi il 60% delle emissioni totali di gas serra nell’Unione europea.
Attraverso i loro target nazionali, i Paesi contribuiranno collettivamente all’obiettivo, modificato nel 2023 nell’ambito del pacchetto Fit for 55 del Green Deal, di ridurre le emissioni complessive del 40% al 2030, in confronto ai livelli del 2005.
Tuttavia, affermano le due organizzazioni, “gli attuali livelli di emissioni autorizzati dalla Commissione sono contrari al diritto ambientale, perché il livello di ambizione climatica è insufficiente per proteggere i diritti umani fondamentali”.
Infatti, le assegnazioni annuali di emissioni a ciascuno Stato membro stabilite dall’ESR sono incompatibili con gli impegni internazionali assunti con l’accordo di Parigi, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’articolo 191 del Trattato sul funzionamento dell’Ue.
Si cita, in particolare, la storica sentenza della Corte europea dei diritti umani, che ad aprile ha accolto in parte il ricorso di alcune anziane donne svizzere contro lo Stato federale, accusato di non aver agito a sufficienza per mitigare gli effetti del surriscaldamento globale.
Obiettivo della causa è portare la Commissione europea a definire obiettivi climatici “basati sulla scienza” coerenti con la limitazione del global warming a +1,5 °C entro fine secolo, rispetto ai livelli preindustriali.
In sostanza, Bruxelles dovrebbe rivedere il regolamento ESR in modo da ridurre le emissioni in maniera più consistente.
Un’udienza presso la Corte generale potrebbe tenersi nella seconda metà del 2025 e una sentenza potrebbe essere emessa all’inizio del 2026, si legge nella nota delle associazioni.
Un’altra azione legale contro Bruxelles, illustrata in nota congiunta del 28 agosto, è promossa dalla coalizione di Ong formata da Dryade, Fossielvrij e Protect our Winters Austria.
In questo caso, a essere “attaccata” dagli ambientalisti è la tassonomia Ue degli investimenti verdi, che include navi e aerei con standard di efficienza ritenuti troppo deboli, con il risultato che mezzi molto inquinanti e alimentati a combustibili fossili potranno meritare un’etichetta “green”.
Sempre in tema di ritardi e negligenze nelle politiche per il clima ricordiamo anche un’altra storica sentenza dell’ottobre 2018 della Corte d’Appello dell’Aia, sorta dalla disputa legale tra lo Stato olandese e quasi 900 cittadini rappresentati dall’associazione ambientalista Urgenda Foundation.
La Corte aveva confermato quello che aveva sostenuto il tribunale distrettuale della medesima città a giugno 2015: “il governo olandese deve fare molto di più per combattere i cambiamenti climatici, riducendo le emissioni di CO2 almeno del 25% entro il 2020, in confronto ai livelli registrati nel 1990″.
Insomma, tutte battaglie difficili e con risultati incerti, ma che danno un segnale forte alla politica europea, ancora troppo inefficace sulla questione climatica.