Nucleare radical chic vs rinnovabili: qualche numero per il ministro

Costi elevati e tempi biblici di costruzione rendono l'attuale nucleare e quello futuribile non competitivo ai fini della decarbonizzazione del sistema elettrico. Ma se il ministro Cingolani conosce questi dati perché si sbilancia con dichiarazioni così velleitarie?

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Le recenti dichiarazioni del ministro Cingolani su rinnovabili e nucleare hanno sconcertato molti, come si evince dai commenti critici comparsi su alcuni giornali.

E invece, curiosamente, sui grandi media sono spuntati interventi di pieno appoggio, da Paolo Scaroni a Chicco Testa.

Ma partiamo dalle rinnovabili, un settore sostenuto con forza dalle grandi associazioni ambientaliste.

Il ministro se l’è presa con gli “ambientalisti radical chic”, (un’espressione fastidiosa, che non ci si aspetterebbe dal ministro), ma ha sbagliato bersaglio, a meno che si riferisse a Italia Nostra o agli Amici della Terra molto critici rispetto alla diffusione dell’eolico e delle centrali solari.

In realtà proprio le energie rinnovabili saranno protagoniste della decarbonizzazione indispensabile per evitare disastri climatici (le sole alluvioni in Germania dello scorso mese hanno provocato danni per 30 miliardi).

Cingolani ha dichiarato che le rinnovabili devono arrivare a produrre in Italia il 72% dell’elettricità nel 2030. Concordiamo e, se il governo aiuterà a superare le opposizioni localiste e gli ostacoli frapposti da molti Enti locali, Regioni e Soprintendenze alla loro diffusione, il risultato sarà raggiungibile.

Ma andiamo oltre, considerando l’obiettivo della neutralità climatica a metà secolo. È chiaro che il ruolo delle rinnovabili dovrà crescere molto anche nei due decenni successivi, considerando che la produzione elettrica dovrà raddoppiare (in parte per produrre idrogeno verde, vedi Strategia Italiana di lungo termine sulla riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra – pdf, pag. 34).

La Germania a gennaio ha approvato il Renewable Energy Act che prevede che entro il 2050 tutta l’elettricità consumata sia climaticamente neutra (e che i consumi energetici finali si dimezzino).

L’anno prossimo l’ultimo reattore tedesco verrà chiuso e continuerà la corsa delle fonti rinnovabili che nel 2020 hanno prodotto la metà dell’elettricità generata dagli impianti a servizio della rete elettrica (vedi grafico sulla generazione di elettricità a servizio della rete tedesca nel 2020 – Fraunhofer ISE/Bruno Burger).

E guardando alla UE, nel 2020 per la prima volta le rinnovabili hanno sorpassato sia la produzione nucleare che quella termoelettrica (nel grafico l’evoluzione della generazione elettrica nella UE tra il 1990 e il 2020).

Del resto, nell’ultimo rapporto della International Energy Agency, “Net zero by 2050”, si ipotizza al 2050 una produzione elettrica generata per il 90% dalle rinnovabili.

Certamente non sarà un obiettivo semplice a raggiungere e si dovranno prevedere notevoli investimenti anche sulle reti e sui sistemi di accumulo, ma l’incredibile caduta del prezzo del solare e dell’eolico rende praticabile questo percorso.

Per quanto riguarda poi il nucleare, l’altro tema discusso da Cingolani, in realtà è noto che le nuove centrali atomiche sono diventate sempre più care e in alcuni paesi gli impianti esistenti faticano a reggere la concorrenza delle rinnovabili e del metano.

Questo è il caso degli Stati Uniti, il paese leader con 94 reattori in funzione, ove ben 39 impianti hanno già chiuso. E, malgrado nel 2021 siano stati stanziati 6 miliardi di dollari per evitare altre dismissioni, alcune società ritengono questo supporto insufficiente.

A livello mondiale la quota di elettricità atomica, che era arrivata a sfiorare il 18%, sta calando e oggi tocca il 10%.

I pochi esempi in Europa e negli Usa di nuovi impianti sono impietosi: si può citare a questo proposito l’accordo raggiunto tra la società elettrica francese EDF e il governo del Regno Unito per la costruzione del reattore nucleare di Hinkley Point che prevede uno “strike price” – un prezzo garantito – indicizzato all’inflazione e che oggi vale 123 €/MWh, per 35 anni.

Oppure è il caso della centrale atomica di Olkiluoto 3 in Finlandia i cui lavori, iniziati nel 2005, dovrebbero terminare nel 2022 con un costo triplicato rispetto alle stime iniziali. E analoghi problemi ha registrato la centrale francese di Flammanville per la quale erano stati preventivati 3,4 miliardi, già saliti a 12,4.

È interessante confrontare questi prezzi con quelli delle rinnovabili. Sono diverse le gare per impianti fotovoltaici aggiudicate nei mesi scorsi con quotazioni incredibilmente basse, tra 10 e 20 €/MWh. Anche considerando l’abbinamento alle batterie, le rinnovabili nei prossimi decenni risulteranno sempre più competitive.

Nel 2020 l’elettricità proveniente da sole e vento ha soddisfatto il 9,4% dell’elettricità mondiale, superando per la prima volta quella prodotta dalle centrali nucleari, un divario destinato ad accentuarsi nei prossimi anni. E, analizzando la nuova potenza installata nel 2020, sole e vento hanno battuto il nucleare per venti a uno.

Va però detto che la Cina riesce, grazie alla mancanza di opposizioni locali e al minor costo del lavoro, a costruire centrali con costi e tempi decisamente inferiori. Il nucleare, che oggi produce solo il 2% dell’elettricità consumata dalla Cina, si ricaverà quindi uno spazio nelle politiche di decarbonizzazione di Pechino.

Tuttavia la crescita della potenza solare ed eolica del paese asiatico nell’ultimo decennio è risultata decisamente più significativa e analoga tendenza riguarda l’energia generata, come si può vedere dai due seguenti grafici sulla Cina il primo sull’evoluzione della nuova potenza nucleare, solare ed eolica (GW), il secondo sulla nuova elettricità nucleare, solare ed eolica (TWh) aggiunta annualmente, entrambi per il periodo 2010-2020.

Ma in Occidente sono i costi elevati e i lunghi tempi di costruzione a rendere controproducente l’espansione dell’uso di questa tecnologia nella sfida per la neutralità climatica. Risultano infatti molto più efficaci, come detto, gli investimenti nel solare e nell’eolico.

Ma Cingolani i dati del nucleare esistente li conosce, e propone infatti di puntare su nuove tecnologie di quarta generazione.

Malgrado si lavori su queste soluzioni dalla fine del secolo scorso, le prospettive non sono brillanti. Lo stesso amministratore dell’Enel, Francesco Starace, forte della sua laurea in ingegneria nucleare ha affermato che un ripensamento non è realistico: “Quello che viene definito ‘nuovo nucleare’ non è tanto nuovo come sembra”.

Dello stesso parere la Union of Concerned Scientists che nel recente rapporto “Advanced is not always better” sottolinea i notevoli limiti di tre modelli di reattori di quarta generazione esaminati (fra essi quello sostenuto da Bill Gates), dai lunghi tempi di sperimentazione, ai rischi connessi con il loro impiego.

Ma supponiamo che, per una serie di congiunture favorevoli, entro la fine del decennio una delle filiere a cui si lavora si dimostri fattibile. Ad esempio, il reattore veloce LFR (Lead cooled Fast Reactor) raffreddato a piombo e bismuto non esaminato nel rapporto UCS (complimenti per gli italiani che ci stanno lavorando).

Bisognerà valutarne i costi, che potrebbero essere molto elevati e, soprattutto, i problemi di localizzazione e di costruzione. Conoscendo le difficoltà a realizzare in Italia un piccolo parco eolico, l’individuazione di un sito adatto per un reattore veloce non sarà cosa semplice.

Ma, ipotizziamo che un miracoloso consenso tra la popolazione porti al superamento dei due referendum contro il nucleare, magari attraverso una nuova verifica popolare, e che feste paesane accolgano l’annuncio di un impianto atomico sul proprio territorio.

Tra processo autorizzativo e tempi tecnici necessari per la costruzione, il primo reattore ottimisticamente potrebbe erogare energia verso la metà del prossimo decennio. Anche installando a ritmo serrato un impianto all’anno da 200 MW (la taglia a cui si sta pensando), a metà secolo avremmo 3.000 MW in grado di fornire il 3,5% della domanda elettrica italiana.

Meglio indirizzare intelligenze e risorse verso i tanti settori indispensabili per affrontare l’impegnativo percorso della transizione ecologica – dalle rinnovabili agli elettrolizzatori per produrre idrogeno, dalla mobilità elettrica ai sistemi di accumulo.

Si può concludere che un ministro, che di questo si occupa, non dovrebbe far intravvedere un futuro di “lacrime e sangue”, ma favorire percorsi che valorizzino le enormi potenzialità, anche per la nostra industria, legate alle trasformazioni finalizzate alla neutralità climatica.

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