Investire più “verde” per uscire dalla crisi. Stavolta impareremo la lezione?

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Perché bisogna eliminare i sussidi fossili e tassare la CO2: un documento dell'Unep fa il punto su come orientare la ripresa economica.

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Abbiamo una seconda possibilità – forse l’ultima – di sfruttare una crisi economica globale per mettere la sostenibilità ambientale al centro delle politiche di investimento.

A dirlo è l’Unep (United Nations Environment Programme), il programma ambientale delle Nazioni Unite, nel presentare un nuovo documento, Building a Greener Recovery: Lessons from the Great Recession, scritto da un economista della Colorado State University, Edward B. Barbier.

Questo documento, per prima cosa, è un appello a non ripetere lo stesso errore compiuto dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, quando i governi di tutto il mondo iniettarono miliardi di dollari nel sistema economico e bancario per uscire dalla recessione.

Peccato che nei loro piani di salvataggio e ripresa economica, i governi lasciarono in disparte la lotta contro il cambiamento climatico e contro le minacce ambientali.

Abbiamo imparato la lezione?

La ripresa economica “verde” è al centro del dibattito europeo su come utilizzare i 750 miliardi del Recovery Fund e su come azzerare le emissioni inquinanti entro metà secolo con il Green Deal.

Intanto l’Italia ha approvato le linee guida del governo su obiettivi e progetti da inserire nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), a sua volta incentrato sul Recovery Fund europeo.

E pure la Cina, finora piuttosto cauta sui temi ambientali, ha annunciato di puntare all’azzeramento delle emissioni entro il 2060.

Secondo Barbier, è necessario definire strategie per investimenti pubblici e riforme fiscali nei prossimi 5-10 anni, imperniate sulla green economy.

La stessa IEA (International Energy Agency) in più occasioni ha sostenuto che la ripresa economica post-Covid 19 – ammesso che si possa già parlare di post-Covid dato il rapido aumento di casi di coronavirus nel mondo – dovrà essere indirizzata verso le energie rinnovabili, la tutela ambientale e l’efficienza energetica.

E poi ha affermato che i governi hanno una storica opportunità per rimuovere i sussidi diretti e indiretti alle fonti fossili.

Anche Barbier, nel documento pubblicato dall’Unep, sostiene che sia necessario eliminare i sussidi dannosi ai combustibili fossili (gas, petrolio, carbone) in modo da incrementare gli investimenti in tecnologie pulite.

Il punto, più in generale, è che i combustibili fossili sono ampiamente sotto-prezzati: in altre parole, sarebbero molto più cari se i loro prezzi finali includessero – come sarebbe giusto – i costi reali di trasporto-distribuzione e i costi dei danni ambientali e sociali che producono (inquinamento atmosferico, impatti sulla salute umana, contributo al surriscaldamento terrestre).

Quanto più cari? Si parla di cifre enormi: migliaia di miliardi di dollari ogni anno su scala globale.

Invece, si legge nel documento, continuare a vendere sottocosto i carburanti fossili a livello mondiale è un deterrente molto forte contro gli investimenti nell’economia verde, perché non c’è un terreno comune di competizione tra fonti convenzionali e fonti energetiche alternative.

Di conseguenza, scrive Barbier, occorre agire su due fronti: eliminare tutte le forme di sussidio alle fonti fossili e varare meccanismi di carbon pricing, vale a dire, meccanismi fiscali volti a tassare le emissioni di anidride carbonica facendo valere il principio “chi inquina paga”.

Non è un caso che l’Europa, proprio in questi mesi, nell’ambito del Green Deal, stia pensando a una possibile estensione e potenziamento del suo mercato ETS (Emissions Trading Scheme, il mercato di quote di CO2), e all’introduzione di una tassa alla frontiera correlata al contenuto di CO2 dei beni importati nel vecchio continente.

Quest’ultima sarebbe una sorta di dazio ambientale con cui colpire la produzione di merci molto inquinanti nei paesi extra-Ue. Per un approfondimento rimandiamo all’articolo Tassa sulla CO2 alla frontiera, tutti ne parlano ma farla è difficile.

Altrettanto difficile è imporre una carbon tax su vasta scala.

Le tasse sul carbonio potrebbero spingere gli investimenti in tecnologie pulite e tagliare le gambe alle fonti fossili, soprattutto se si imponesse un prezzo tra 50-100 dollari per tonnellata di anidride carbonica emessa, ma realizzare una politica del genere su scala europea o addirittura internazionale sarebbe molto complesso.

Tra l’altro, secondo le stime del Fondo monetario internazionale, il valore medio della carbon tax nei 28 paesi che l’hanno già adottata nel mondo è pari ad appena 2 dollari/tonnellata.

Intanto, nei giorni scorsi, il parlamento tedesco ha approvato la carbon tax da 25 euro per tonnellata di anidride carbonica, che dal primo gennaio del prossimo anno in Germania colpirà le emissioni inquinanti dei carburanti fossili utilizzati nel riscaldamento e nei trasporti.

E negli anni successivi la carbon tax salirà fino a 55 € ton/CO2 entro il 2025, mentre dal 2026 il prezzo finale di ogni tonnellata di anidride carbonica sarà determinato tramite aste, in un corridoio di 55-65 € ton/CO2.

Come conseguenza della carbon tax, secondo il ministero dell’Ambiente, il prezzo per un litro di benzina aumenterà di 7 centesimi lordi il prossimo anno, mentre olio combustibile e gasolio vedranno incrementi pari a 8 centesimi lordi/litro. Per il gas naturale, l’aumento previsto è di 0,5 centesimi per kWh.

Non resta che vedere se almeno l’Europa troverà una politica coordinata in questo campo, oppure se i singoli paesi continueranno a procedere in ordine sparso.

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