Perché l’Italia è agli ultimi posti nell’innovazione energetica?

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Quali sono le pecche della ricerca e sviluppo italiana? Cosa si dovrebbe fare? L'importanza della formazione energetica, e non solo, e un esempio di impresa innovatrice in Italia. Alcuni spunti dal numero della rivista Enea che ha come focus l'innovazione.

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Anche se l’innovazione ricopre un ruolo strategico per la transizione ecologica ed energetica, nel nostro Paese resta ancora tanto da fare.

L’intensità tecnologica del tessuto produttivo è inferiore alla media europea e le spese in R&S in rapporto al Pil ammontano a circa 0,9% contro l’1,4% dell’Ue (dati 2021).

Tuttavia investire nell’innovazione è importante. Infatti, il Rapporto annuale ISTAT ci informa che le imprese innovatrici godono di un differenziale positivo di produttività del lavoro, rispetto alle non innovatrici, pari a +37%.

Il differenziale aumenta per le imprese innovatrici attive nella R&S (+44,7%) ed è massimo nelle grandi imprese attive nella R&S (+46,7%). Tra quelle innovatrici, inoltre, le imprese che investono in R&S beneficiano di un differenziale positivo di produttività rispetto a quelle che non svolgono attività di R&S (+5,6%).

Partendo da questi dati, l’ultimo numero della rivista scientifica di ENEAEnergia Ambiente e Innovazione, tutto dedicato appunto a “Innovatori e Innovazione” (pdf) racconta che cosa manca affinché nel nostro Paese cresca la propensione a investire in R&S.

Lo stato dell’innovazione in Italia

Nel magazine dell’ente emerge che l’Italia soffre di un investment gap, una delle maggiori criticità sul fronte dell’innovazione.

Secondo una rilevazione del network mondiale EY, l’investimento Venture Capital in Italia è stato pari a 35 euro pro capite nel 2022, contro i 149 della Francia e i 153 della Germania, evidenziando un ritardo di 5-7 anni rispetto alle altre principali economie continentali.

Anche per quanto riguarda le richieste di brevetti per l’energia a livello globale, l’Italia resta ai margini, avendo detenuto nel 2021 solamente lo 0,6% dei brevetti totali del settore energetico (Richieste di brevetti per l’energia: Cina superstar, Italia fanalino di coda).

La capacità di innovazione dell’industria italiana appare ancora limitata, in particolare nel settore della transizione energetica ed ecologica, mettendo anche a repentaglio il rispetto dei target ambientali se non al prezzo di crescenti importazioni dall’estero, che graverebbero alla lunga sul deficit estero compromettendo lo sviluppo del Paese.

Perché siamo in ritardo?

Secondo la Presidente del CNR Maria Chiara Carrozza, il nostro ecosistema non riesce a tradurre le competenze e le ricerche sviluppate in innovazione e in nuovi prodotti e mercati.

A fornire un quadro più dettagliato del fenomeno è Alessandro Coppola, Direttore Innovazione e Sviluppo di ENEA. Coppola spiega che fare innovazione significa percorrere l’iter che dalla ricerca di base porta all’applicazione dei nuovi prodotti e servizi: un iter composto da 9 livelli di preparazione tecnologica (Technology Readiness Level), messi a punto dalla NASA negli anni ’70. Secondo Enea, lo step critico per l’ecosistema italiano è quello che include il trasferimento tecnologico e il suo finanziamento.

Questo perché il 95% delle aziende italiane sono PMI, con un management spesso a struttura familiare e cristallizzato nel proprio business model all’interno di una filiera, quindi con scarsissima propensione a lanciarsi in investimenti: senza agevolazioni pubbliche, difficilmente le aziende si avventurano su iniziative di innovazione.

Ma il nodo del trasferimento tecnologico non è solo un problema di disponibilità di fondi, infatti – aggiunge Coppola – è poco utile creare nuovi fondi pubblici e fondazioni, anche con ricche dotazioni, senza chiedersi perché altri precedenti abbiano avuto scarsi risultati come leva per l’attrazione di capitali privati.

Cosa si può fare?

Sempre secondo Coppola, non basta creare “un ufficio di trasferimento tecnologico”, se lo si popola di professionalità scientificamente elevate ma prive di esperienze sul campo, trasversali e catalizzanti. Serve inserire nella miscela (ricerca+impresa) una terza sostanza, composta da professionalità intermedie, che abbiano la capacità di raccordare la trasversalità della ricerca con la verticalità dell’impresa.

In un Paese industrializzato e tendente alla terziarizzazione – dove gli operai sono sempre più tecnici specializzati e gli agricoltori sono spesso dei tecnologi con profonde conoscenze in campo agronomico – ciò che farà la differenza non è tanto l’aspetto quantitativo (tante braccia… tanto Pil) quanto piuttosto quello qualitativo, ovvero il valore aggiunto prodotto da ognuno di noi per effetto delle competenze, formazione e capacità di lavorare insieme che, sia la scuola che poi anche il contesto sociale e lavorativo, riescono a conferirci.

La formazione e la scuola sono quindi un investimento fondamentale e strategico per la nostra capacità di svolgere con successo il percorso dell’innovazione e per “fare export a casa nostra”. E qui la politica ha un compito chiave e dovrà essere più pragmatica.

Innovare per la transizione energetica

Per quanto riguarda direttamente la transizione energetica, Giulia Monteleone – Responsabile della Divisione Produzione, Storage e Utilizzo dell’Energia, Dipartimento Tecnologie Energetiche e Fonti Rinnovabili di Enea – scrive che è necessario investire, oltre che sulla formazione, anche sull’individuazione delle priorità di ricerca.

Enea suggerisce che la ricerca deve promuovere e supportare lo sviluppo dell’intera filiera tecnologica, individuando priorità di ricerca per il breve, medio e lungo termine, in funzione per esempio della maturità di specifiche tecnologie, disponibilità di impianti a fonti rinnovabili, prontezza al cambiamento di specifici settori rispetto ad altri.

Gli obiettivi posti alla base delle innovazioni dovranno riguardare la riduzione dei costi di investimento e la gestione delle tecnologie, ma anche la maggiore affidabilità, l’efficienza, la durata di vita e la sicurezza. C’è poi tutta la parte che riguarda lo sviluppo e la ricerca di materiali.

Monteleone ritiene che l’Italia è già nella posizione di poter generare l’innovazione e di accelerare la diffusione sul mercato di nuove tecnologie, ma per fare in modo che questo avvenga è necessario colmare le lacune esistenti tra il mondo della ricerca e quello dell’industria e favorendo le sinergie tra enti di ricerca, industria e società civile.

Tutti aspetti, aggiungiamo noi, che dovrebbero vedere il nostro ente di ricerca molto più in prima fila, focalizzando, appunto, al meglio le sue priorità, le sue competenze e investendo soprattutto sui giovani, un aspetto ormai obbligato in un paese da troppo tempo poco incline a investire nella ricerca e, in genere, nella formazione scientifica. Un tema che viene ripreso più volte nel dossier Enea perché l’obiettivo deve essere promuovere la formazione fin dall’età scolare e soprattutto dove è più carente come nel meridione o nelle fasce più marginali della società.

Si ricorda così che l’Ue, con il Next Generation EU, ha previsto investimenti e riforme per accelerare la transizione ecologica ed energetica anche attraverso il miglioramento della formazione di lavoratrici e lavoratori. Anche nel PNRR è stato inserito uno specifico strumento, il Fondo nazionale per le nuove competenze, con lo scopo di potenziare la formazione e di inserire nel mercato del lavoro i disoccupati e i giovani attraverso specifici programmi.

Un esempio di impresa innovatrice: Loccioni

Tra formazione ed esempio di innovazione tutta italiana emerge, anche nella rivista Enea, l’impresa Loccioni, che nelle Marche progetta e produce sistemi di test su misura per il cliente, sia da laboratorio che in linea di produzione, per il miglioramento della qualità, della sicurezza e della sostenibilità di prodotti e processi produttivi: dagli elettrodomestici alle auto, dagli aerei ai treni, dall’energia ai processi di cura.

Come una sorta di “sartoria tecnologica” l’impresa ha un’organizzazione orizzontale, in cui i rapporti non si basano sulla gerarchia, ma sulla fiducia. Ognuno cresce dal basso per merito e passione.

Per sviluppare questo percorso nasce anche la Scuola Loccioni, che prepara i collaboratori dell’impresa ma apre le porte aziendali anche a studenti e professori. La formazione continua e il modello di impresa della conoscenza hanno l’effetto collaterale di generare nuovi imprenditori: sono infatti oltre 120 gli spin-off Loccioni creati in 50 anni, ex-collaboratori che scelgono di fare gli imprenditori e portano avanti il modello di impresa della conoscenza. Fondamentale per la Loccioni è anche la rete dei Silver, i “nonni professionali”, ovvero persone con tanta esperienza che condividono il loro sapere con i giovani.

L’azienda è innovatrice anche dal punto di vista energetico: i laboratori Loccioni, posti sulle due sponde del fiume Esino, sono connessi in una micro-grid energetica 100% elettrica (il gas è stato abolito 10 anni fa) in cui la gestione intelligente dei flussi energetici, la produzione da fotovoltaico e da idroelettrico e oltre 1 MWh di batterie di accumulo, permettono all’impresa di essere emettitore negativo di CO2 per oltre 1000 tonnellate/anno, di risparmiare oltre 1 milione e mezzo di euro (bilancio energetico 2022) e addirittura di avere un profitto di 250mila euro.

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