Capita spesso di non riuscire a staccarci da certi automatismi mentali. Ad esempio, davanti ad un problema che si era già verificato in passato, oggi si invocano soluzioni che un tempo potevano sembrare ideali, senza verificare che intanto il contesto è profondamente mutato.
In campo energetico accade in continuazione con l’energia nucleare: ad ogni crisi saltano fuori quelli che “Se avessimo fatto il nucleare negli anni ’80 (o nel 2010 con Berlusconi), non saremmo in questi guai!” oppure “Ma quali rinnovabili, è ora di puntare al nucleare!”.
Eppure, adesso sperare nel nucleare per liberarci dalla dipendenza dal gas naturale è piuttosto illusorio, visti i tempi e le spese necessarie per creare una filiera nucleare. È stato detto e ridetto, e vale anche per i fantomatici “nuovi mini reattori modulari”, che Lindsay Krall, ingegnere della Stanford University, ha dimostrato su Pnas essere produttori di scorie radioattive in quantità 30 volte maggiore per unità di potenza rispetto alle grandi centrali.
Ma anche pensare che se non ci fosse stato il referendum antinucleare del 2011, oggi saremmo più felici e contenti, ha poco senso: quel “Rinascimento nucleare italiano” del governo Berlusconi prevedeva la costruzione di ben quattro centrali Epr e ammesso, e non concesso, che entro il 2012 avessimo trovato i siti dove costruirle, superando l’opposizione popolare, oggi, nel 2022, quelle quattro centrali sarebbero ancora molto al di là dall’essere completate.
Basti guardare cos’è successo in Finlandia e Francia con i due Epr in cantiere dal 2005 e 2007: solo adesso il primo è entrato in funzione, e forse il secondo lo sarà il prossimo anno, dopo decenni di ritardi e con costi aumentati da 3 a 13 miliardi.
Insomma, quell’agognato “Rinascimento nucleare” sarebbe comunque stato un disastro economico e politico del tutto inutilizzabile per la fuoriuscita dal gas russo.
E se fossimo andati avanti negli anni ’80 e ‘90 con il nucleare, imitando i cugini transalpini? Di nuovo, ammesso e non concesso che la strategia fosse stata perseguita senza disastri di varia natura (eravamo ai tempi di Tangentopoli) e che la lobby del gas si sarebbe fatta soffiare il grande business dell’energia, probabilmente oggi saremmo ancora nei guai.
Andiamoci a guardare il cosiddetto “modello Francia”.
Da anni il costo del kWh francese è in crescita a causa dei sempre maggiori costi di gestione del parco nucleare; in questi ultimi tempestosi mesi si è impennato come quello del resto d’Europa, e non molto diversamente da quello italiano. Prezzi dell’elettricità alle stelle soprattutto per la carenza di rinnovabili che avrebbero invece “scacciato” dal mix energetico quel gas di cui la suddetta lobby ci ha resi dipendenti in questi ultimi decenni.
Per esempio, il 15 giugno, il Pun francese ha oscillato dai 206 ai 370 €/MWh, e quello italiano fra i 270 e i 370. La Spagna, salvata da vento e sole, invece ha oscillato fra 160 e 200 €/MWh. Ma com’è possibile?
Il nucleare francese, ormai vecchio di 30-40 anni e quindi superammortizzato, non doveva garantire prezzi bassissimi?
Non è più così. Oggi i reattori francesi sono in media molto vecchi, e soffrono di sempre più acciacchi. Così da molti mesi buona parte del parco nucleare francese è “spento”: a fine aprile 28 reattori su 56 erano fermi: 23 per manutenzione programmata (accumulatasi nel 2021-22 per i ritardi causa Covid) e 5 per danni da corrosione non previsti, che richiederanno molto tempo per essere risolti.
Risultato: ormai in Francia la potenza nucleare durante il giorno tocca a stento i 30 GW, invece dei 60 potenziali, e per quello che manca al fabbisogno riesce sempre a infilarsi la generazione a gas che, pure se in quantità molto minore che in Italia, fa schizzare in alto il prezzo del kWh per effetto del meccanismo del prezzo marginale.
Ma c’è dell’altro. Visto che la Francia non ha un parco di centrali termiche o da fonti rinnovabili molto esteso, mentre i consumi elettrici restano altissimi, la riduzione della generazione da nucleare la rende sempre più dipendente dall’importazione di elettricità: mentre un tempo era l’esportatore elettrico numero uno in Europa, nel quarto trimestre 2021 il paese ha esportato elettricità per 2 miliardi di euro e ne ha importati per 2,4 mld € e nel primo trimestre 2022 ne ha esportata per 2,2 miliardi e importata per 2,5. Un fatto mai accaduto prima.
Senza quelle forniture estere la Francia più volte avrebbe corso il rischio di restare al buio, se non fosse che il suo principale fornitore, la Germania, si è trovata spesso a cederle enormi quantità di elettricità, talvolta più di 10 GW, generata da solare ed eolico, risparmiando ai transalpini l’onta dei blackout.
Però, contesteranno alcuni, anche se ora la situazione non è così rose e fiori, l’Italia dipende da quelle centrali nucleari francesi per coprire i suoi consumi elettrici.
In realtà il nostro paese ha un parco di centrali sovradimensionato per le sue esigenze, e potrebbe andare avanti anche senza il nucleare francese: abbiamo oltre 100 GW di centrali di vario tipo disponibili, contro una domanda che in genere resta sotto ai 50.
Siamo noi, con le nostre importazioni, ad aver fatto un favore alla Francia, che ha trovato nell’Italia un mercato di sbocco per l’eccesso di produzione nucleare, fonte non velocemente modulabile, evitando di costruire troppi bacini idroelettrici di stoccaggio. In cambio ci hanno fornito elettricità ad un costo competitivo, ed è per questo che la compriamo.
Ma anche in questo settore la situazione negli ultimi anni e mesi è cambiata.
Secondo i dati Terna il picco dell’import dalla Francia è stato toccato nel 2019, con quasi 19 TWh, mentre nel 2020, per ovvi motivi, siamo scesi a 13,8, risalendo poi nel 2021 ma solo fino a 15 TWh.
Dal 1° gennaio al 15 giugno 2022, l’import è sceso ancora, a 6,2 TWh, contro i 6,7 dello stesso periodo del 2021: un calo che è segno sia della minore elettricità esportabile dalla Francia che della sua minore convenienza.
La Francia non è la sola esportatrice di energia nucleare verso l’Italia, visto che una parte arriva dalla Svizzera (oggi la maggiore esportatrice di elettricità in Italia, con 19,4 TWh nel 2021). Tuttavia, questo paese non solo ha molto idroelettrico (56% della sua produzione elettrica, contro il 37% da nucleare), ma importa molto anche dalla Francia e dalla Germania, per poi esportare in Italia e, ancora, nella stessa Francia. Allora va a capire da dove arrivano gli elettroni che consumiamo in Italia!
Elettricità da fonte nucleare proviene anche dalla Slovenia, ma in questo caso siamo su livelli più bassi, circa 5,4 TWh nel 2021, sui 318 di domanda nazionale.
Insomma, probabilmente avere avuto sul nostro territorio delle centrali nucleari ci avrebbe protetto poco o niente dall’attuale tempesta energetica, mentre sicuramente avrebbe aggiunto altri enormi problemi come ritardi, rischi di incidenti, guasti, extracosti, lotte politiche e di piazza durante la loro costruzione ed esercizio, e una montagna di spese future per lo smaltimento finale di scorie e centrali.
Alla fine, aver lasciato ai francesi l’onere di diventare la locomotiva nucleare d’Europa (che, non dimentichiamolo, a loro serve anche per ammortizzare il costo del nucleare militare), e poi vendere a noi la sua elettricità a prezzi bassi, non è stata una cattiva idea.
Quella pessima è stata di aver sostituito il nucleare con il cappio del gas, senza pensare da dove venisse e a quali costi nascosti lo stessimo comprando, costi che stiamo comprendendo e pagando solo ora, con l’accentuarsi della crisi climatica, economica e geopolitica.
Avessimo sostituito le mancate centrali nucleari con sempre più rinnovabili, risparmio ed efficienza energetica, allora sì che oggi ci troveremmo in una posizione più solida, invece di essere diventati il paese UE più dipendente dalla fonte fossile più cara di sempre.