Il nucleare senza futuro, spacciato come una possibile soluzione

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Grande o mini, il nucleare "è più vecchio dei transistor", sempre rischioso e irrilevante rispetto all’obiettivo climatico del 2030. Un articolo di Gianni Mattiolo e Massimo Scalia.

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Sull’“Allegretto” del Rigoletto, Cingolani, novello Duca della Transizione ecologica, sembra stia conducendo da mesi una campagna di confusione di massa in cui “nucleare di IV generazione”, “fusione nucleare”, “nuovo nucleare verde” sono corteggiati e proposti, di volta in volta con uguale disinformata passione.

Dobbiamo però ricrederci e dire che non è solo un’esibizione di impudica incompetenza, ma è un “far caciara” sincrono con la passione che per il nostro Duca è madre delle altre: quella per l’Eni. Il nucleare, improbabile per il nostro Paese, come ha rilevato Starace, Ad di Enel e la fusione, un futuribile che di più non si può, sono agitati come alibi gattopardesco perché l’Ente degli idrocarburi non corregga di una virgola il suo core business, i suoi assett e i suoi vergognosi obiettivi: 25% di riduzione al 2030 delle sue emissioni GHG, 15 GW di rinnovabili mentre le sue concorrenti, Total e BP, hanno fissato, rispettivamente, 100 GW e 50 GW.

Qui da noi, basti qualche spot in TV ammiccante al ruolo indispensabile delle nuove generazioni.

Un peccato che Draghi, primo Premier a pronunciare «non c’è più tempo» e a spendere parole e promesse non banali, si faccia trainare dal Duca sulla sponda degli idrocarburi.

Sì, dare un margine di credito a Draghi resta un’opzione da non far annegare nel mare degli improperi, riversati sul “banchiere legato ai poteri forti” dai “veri” compagni, con uno sdegno del tutto improprio rispetto alla parabola discendente di tutta la sinistra, ahimè proprio nel rappresentare efficacemente il Paese, dai più deboli alla classe operaia ma anche ai ceti medi più aperti e avanzati.

Tutto ciò premesso, cerchiamo di riportare un po’ di ordine nell’entropia insufflata a vagoni dal Duca e dal tristo bordello di ispiratori e fiancheggiatori.

Generazione vecchia

Che si parli di terza generazione “avanzata”, la “III+”, o di IV generazione o di “Small Modular Reactor”, gli “Smr”, la tecnologia di base è sempre la stessa, con alcuni miglioramenti puramente ingegneristici, che abbiamo già descritto per i reattori “III+” o “IV” nel nostro libro “Nucleare a chi conviene” (2010) e che tali sono rimasti.

Anche gli Smr, ancorché siano proposti come “piccoli e sicuri”. Piccoli certamente, dalle poche decine di MW fino al centinaio; di “sicuro” hanno solo i conseguenti minor inventario radioattivo e minor volume di scorie rispetto a un reattore di potenza, ma se poi ne localizzo in un’area quanti ne servono per i 1.000 MW, ritorniamo da capo a uno.

Alternativamente, il panorama di una loro eventuale disseminazione su vasta scala configura la distopia di un mondo radioattivo popolato da mutanti.

Nonostante l’altro elemento di richiamo, il poter essere trasportati in loco già allestiti, nella lista degli oltre 50 Smr progettati in tutto il Pianeta solo 4 risultano in costruzione e altri quattro in esercizio: tre in Russia, un RBMK, come quello di Cernobyl, da 11 MW, e due PWR da 50 e 70 MW; un gruppo in Cina, da 210 MW. Quest’ultima realizzazione, prevista in esercizio entro la fine del 2021, sarebbe uno scoop, si fa per dire, per la IV generazione.

Parliamone, allora. A Shidaowan (Shandong), due mini reattori HTGR (High Temperature Gas-Cooled Reactor) da 100 MW sono accoppiati a una stessa turbina da 210 MW, e la World Nuclear News (WNN) gioisce perché è un reattore ad alta temperatura raffreddato a gas e moderato a grafite, con il nucleo del reattore pebble bed, cioè “a letto di sfere”. Embè?

Sarebbe, seppure in scala così ridotta, un VHTR, cioè uno dei sei tipi di reattori proposti da vent’anni e passa dal Generation IV International Forum (GIF), anche se non raggiunge i 1000 °C previsti. Il primo a entrare in esercizio. Ce ne ha messo di tempo, poiché sia negli USA sia in Germania e in Giappone i prototipi sperimentali sono partiti negli anni ’60. E per quello cinese, che fruiva della decennale sperimentazione precedente, i lavori sono iniziati nel 2012.

Quanto ai problemi dello smaltimento della grafite, “moderatore” della velocità dei neutroni, basta guardare alla centrale di Borgo Sabotino (LT). Una delle prime tre in Italia, 200 MW, spenta dal 1987; sui duemila metri cubi di grafite del reattore la Sogin tace, proprio mentre è in corso in tutta Italia la consultazione degli stakeholder, primo step del decommissioning.

Sempre nell’area di Shidaowan si dovrebbero realizzare altri tre impianti, ognuno costituito da sei “mini reattori” accoppiati a una turbina da 600 MW, cioè far passare dalla finestra i nanetti “IV” evitando la porta, cioè quel che sarebbe stato il logico sviluppo industriale della terza generazione: reattori di potenza, da 1.000 MW in su.

Anche se questo progetto si realizzasse entro il 2030, la potenza elettrica resa disponibile rappresenterebbe meno dell’1% dei nuovi 300 GW previsti in Cina alla stessa data per l’insieme delle rinnovabili.

La realizzazione cinese fa sgonfiare il petto del Duca, che con orgoglio rivendicava un’impronta italiana sulla IV generazione. Fermi Energia, la società italiana che ha concluso con l’Estonia un contratto per un Smr in esercizio non prima del 2030, vanta una IV generazione per lo stesso modello prevista per il 2035. Quindici anni dopo quello cinese.

Civile e nucleare

In realtà, l’enfasi internazionale sugli “Smr” nasconde, neanche troppo bene, le esigenze militari per la propulsione atomica di navi e sottomarini, alla base di accordi tra USA e UK e tranquillamente sbandierati dalla Rolls Royce (Chaffee, P., 2020, “Rolls-Royce Pushes for Major SMR Commitment.” Nucl.Intell. Wkly. 14).

A conferma, ce ne fosse stato il bisogno, dell’inscindibile legame tra nucleare civile e militare.

Riguardo ai reattori di potenza, il GIF indicava nel 2030 una data entro cui alcuni di questi progetti avrebbero potuto essere disponibili per usi civili commerciali, ma per quello che viene considerato da molti il più interessante – il reattore al Piombo-Bismuto – la stessa Accademia delle Scienze russa, pur raccomandandone la costruzione, non proponeva una scadenza realizzativa.

Riassumendo, i progetti Generation IV da vent’anni non hanno trovato finanziamenti, né pubblici, con eccezione di Cina e Russia, né tantomeno privati, di dimensioni tali da consentire il loro decollo come generazione in grado di superare tecnologicamente la “III+”.

Nonostante alcuni progetti mostrino aspetti interessanti, nessuno di essi assume un ripensamento a fondo della Fisica del reattore come base per una vera innovazione impiantistica. Ad esempio, dov’è finita la “sicurezza intrinseca”, pure così presente nel dibattito del referendum del 2011?

All’epoca veniva ricordato il “Pius”, un progetto per un BWR da 600 MW partito nel lontano 1987 con la benedizione della Asea Brown Boveri (ABB), un gruppo svizzero-svedese, e ancora oggi oggetto di articoli scientifici. Appunto, nato e rimasto sulla carta. E qui da noi quel galantuomo, competente, di Maurizio Cumo, aveva progettato il MARS. Mai entrato in pista.

La critica di fondo sull’obsolescenza dei progetti di reattore come prezzo da pagare perché la Fisica si è disinteressata dell’energia nucleare da quando è diventata realizzazione di impianti, roba per ingegneri, fu ripresa da Rubbia: «Il nucleare classico, compreso quello di quarta generazione, non può aspirare a una diffusione su larga scala» (La Repubblica, 30 maggio 2007).

Un altro radical chic, stando all’“Allegretto” del Duca. E un altro Nobel, Giorgio Parisi, si era divertito a ricordare, nell’assumere qualche anno fa la presidenza della Commissione scientifica sul decommissioning, che «il nucleare è più vecchio dei transistor». Già, chi se le ricorda più le radioline che negli anni ’60 garantivano il godurioso consumo domenicale delle partite di calcio.

Ma da qui al 2030? Negli USA la cancellazione nel 2017 di un AP-1000, il “III+” della Westinghouse, e l’aumento dei costi dell’impianto “Vogtle”, in Georgia, ha portato la casa americana sull’orlo del fallimento, anche se la costruzione di “Vogtle” dovrebbe terminare entro l’anno.

La Cina resta il solo operatore su AP-1000 e suoi sviluppi (CAP 1400), come anche l’unico Paese in cui sono entrati in esercizio, oltre all’AP-1000, i due EPR di Areva. A dimostrazione dell’antica convinzione che il nucleare si coniuga con finanziamento pubblico e regime autoritario.

Declino atomico

La quota di produzione elettronucleare mondiale è vistosamente calata dal 17% al 10%; un calo che non sarà recuperato al 2030, anche se venissero attaccati alla rete i 55 GW che WNN profetizza come pronti nei sette anni dal 2021 al 2027.

E neanche se fosse autorizzato il prolungamento di vita di tutti i 230 reattori che, al 2027, avranno superato i 40 anni.

Per contro, al ritmo attuale di oltre 90 GW all’anno di solare fotovoltaico, di 50 GW di eolico inshore e offshore e di 10 GW da biomasse, e tenendo conto della loro minore “densità”, le fonti rinnovabili produrranno al 2027 il quadruplo di quel che verrebbe dagli ipotetici 55 GW nucleari.

Credibilità delle previsioni di sviluppo e delle stime sui tempi suonano fasulle, anche per la parallela vicenda della generazione “III+”. Che qui non vogliamo ricordare un’altra volta, se non perché il fallimento di Areva, la società di stato che produce gli EPR, e lo spettro delle colossali spese per il decommissioning del surdimensionato parco nucleare francese, spingono la Francia all’arrembaggio dei finanziamenti del recovery fund della UE, con la richiesta dell’inserimento del nucleare nella “tassonomia verde”.

Al seguito, i pezzentoni di Visegrad con i loro VVER o altri reattori di stampo sovietico.

Ma questa sarà la battaglia dei prossimi mesi, dove la sagacia di Macron ha unito al nucleare analoga richiesta per il gas.

L’occhio è alla Germania, che chiude il nucleare l’anno prossimo, ha ancora molta elettricità da carbone e preme perché Gazprom attivi la fornitura dalla Russia del Nord Gas Stream 2, attraverso il Mar Baltico bypassando Ucraina e Bielorussia.

Mettiamo ora i puntini anche sulla fusione, poeticamente evocata dal Duca come l’energia delle stelle. E con un do di petto, in un’intervista rilasciata, guarda un po’, all’Eni: «Ad esempio, la fusione nucleare è stata abbandonata […] anche perché la fissione, cioè il passaggio intermedio, ha evocato grandi paure, per cui, come popolazioni ‘avanzate’, non ce la siamo sentita di andare avanti come avremmo potuto».

Di nuovo l’“Allegretto”, dove spaccare gli atomi più pesanti, in fondo alla tabella di Mendeleev, è “un passaggio intermedio” per fondere i leggerissimi isotopi dell’idrogeno, i primi di quella tabella. Aridatece la Gelmini dei neutrini del Gran Sasso. E poi, un tecnologo che ignora l’esistenza del “pentolone” di Cadarache? In mano a chi è la transizione ecologica.

L’idea di riprodurre sulla terra il meccanismo energetico del sole, fascinosa negli anni ‘60, è una delle toppe più clamorose della Fisica teorica.

Edward Teller, il padre della bomba H (primi anni ’50), probabilmente guardando ai tempi intercorsi tra la “pila atomica” di Fermi, 1942, e le prime realizzazioni di centrali elettronucleari a fissione — seconda metà degli anni ’50 — vaticinò disponibile nei primi anni ’90 l’energia elettrica da fusione; quel vaticinio è stato sistematicamente spostato di decenni più avanti, man mano che ci si avvicinava alla fatidica data.

Oggi abbiamo Usa, Russia, Cina, India, Giappone e Ue che finanziano un colossale progetto di centrale a fusione, Iter, in costruzione a Cadarache (Francia).

Un progetto “ibrido” tra ricerca sperimentale e prototipo industriale, come evidenzia la sua tempistica, peraltro approssimativa: entro il 2035-40 passare alla fase “Demo”, che entro il 2050 si dovrebbe concludere con la produzione dei primi kWh. Il progetto Iter risulta obsoleto ancor prima della sua entrata in esercizio. Infatti:

a) non è in grado di portare alcun contributo in tempo utile alla lotta contro la drammatica accelerazione del global warming, l’angoscia del “non c’è più tempo”;

b) è in profonda contraddizione con la sopravvenuta strategia Ue (2007) dei tre 20% al 2020, divenuta riferimento dell’Accordo di Parigi (ratifica 2016), che prevede uno spostamento dalla grande produzione di energia concentrata, come le megacentrali elettriche, a energie diffuse sul territorio e più facilmente controllabili dai cittadini fino all’autogestione (vedi, anche in Italia, le “comunità energetiche”); se al 2050 il 100% della produzione elettrica non verrà dalle energie rinnovabili, come prevedeva il sondaggio effettuato dalla McKinsey tra produttori di elettricità e istituti finanziari (2011), ci si sarà però molto vicini.

Visto che già nel 2020 la produzione di elettricità da rinnovabili si è attestata sul 38%, superando per la prima volta quella da fonti fossili; che tra gli obiettivi del Recovery fund Ue c’è una forte spinta per aumentare questa quota già entro il 2030 e che Cop 26 deluderà pure, ma accelera decisioni e realizzazioni in questa direzione. Un quadro che rende inutile, oltre che fuori tempo, il costosissimo e assai futuribile kWh da fusione.

Il fabbisogno energetico del mondo è sempre stato una questione strategica, intessuta di complesse manovre politiche a servizio di interessi economici e/o dei potenti, oggi drammaticamente connotata dal “Non c’è più tempo”.

Forse è anche possibile una lettura di Cop 26 come recepimento, almeno come indicazione, di quella che abbiamo chiamato “2025, linea del Piave climatica”. Di certo bisognerà battersi in tutte le sedi perché quei ritmi di crescita prima riportati per le rinnovabili siano almeno raddoppiati entro quella data.

Ogni gruppo di stakeholder dovrà dotarsi nel suo Paese di obiettivi precisi, congruenti con quella linea. Il primo impegno, qui in Italia, è far cambiare rotta all’Eni o, altrimenti, far sostituire il suo inadeguato gruppo dirigente. A cominciare dalla sessione di Bilancio in Parlamento, dove la battaglia per passare dalle troppe parole ai fatti è ridurre quella marea di miliardi che ogni anno finanziano, con le tasche degli italiani, “Sussidi Ambientali Dannosi”, cioè le tariffe agevolate di cui può fruire sia la grande industria che la PMI nell’acquisto di idrocarburi.

Battaglia omogenea a quella contro il CCS, il progetto di nuovi investimenti sul metano e “forte Apache” dell’Eni nella sua perversa resistenza a farci restare nell’era dei fossili. Nessuno è ingenuo sulla difficoltà di questo impegno ma è necessario e non impossibile.

L’articolo è stato pubblicato sul n.5/2021 della rivista bimestrale QualEnergia con il titolo “Questa o quella per me pari sono”.

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