Il vero impegno di Big Oil per il clima è ancora tutto da dimostrare

Nessuna delle grandi compagnie petrolifere ha piani climatici allineati con gli accordi di Parigi, nonostante gli annunci dei mesi scorsi. Lo studio di Oil Change International.

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Quest’anno, dopo il crollo della domanda di greggio innescato dal lockdown, alcune compagnie petrolifere tra cui BP, Shell e Total, hanno annunciato nuovi investimenti nelle energie rinnovabili e nuovi impegni per ridurre le emissioni inquinanti delle loro attività.

Ma i loro obiettivi sono sinceri? Stanno davvero puntando verso un mix energetico più “verde”?

In realtà, nessuna delle grandi compagnie mondiali del settore oil & gas, finora, ha varato una strategia industriale compatibile con il traguardo fissato dagli accordi di Parigi nel 2015: limitare a +1,5-2 gradi l’aumento delle temperature medie del Pianeta, entro fine secolo, in confronto all’età preindustriale.

Insomma, l’impegno di Big Oil nella lotta contro il cambiamento climatico è del tutto inadeguato, sottolinea Oil Change International in un documento, “Big Oil reality check” (link in basso), che mostra quanto ancora sia diffuso il greenwashing tra le aziende fossili.

Le società, infatti, spesso affermano di volersi impegnare per diminuire i loro impatti sul clima, ma poi agiscono nella direzione contraria, perché fanno investimenti che solo in apparenza consentiranno a quelle stesse società di tagliare le emissioni inquinanti (questo significa fare “greenwashing”).

Vediamo meglio la questione con l’aiuto di una tabella.

La tabella, tratta dallo studio di Oil Change International, evidenzia se i piani climatici di otto compagnie petrolifere – BP, Chevron, Eni, Equinor, ExxonMobil, Repsol, Shell, Total – siano allineati a dieci criteri che, se pienamente soddisfatti, consentirebbero a Big Oil di raggiungere l’obiettivo di Parigi.

Per essere in linea con Parigi, in sostanza, le grandi aziende fossili dovrebbero tagliare progressivamente la produzione di petrolio e gas dai giacimenti esistenti e smettere immediatamente di esplorare nuove riserve di idrocarburi.

Si parla, infatti, di “managed decline”, un declino gestito delle tradizionali attività oil & gas su scala globale. Un siffatto declino gestito, tra l’altro, aiuterebbe le aziende a evitare il rischio di stranded asset, definizione inglese che riguarda gli impianti e le infrastrutture che perderanno valore e competitività (pensiamo a una miniera di carbone messa fuori gioco dai nuovi parchi eolici e fotovoltaici, o un giacimento petrolifero che produce petrolio a costi troppo elevati rispetto al mercato).

Il punto è che nessun piano climatico è davvero allineato agli accordi di Parigi.

La maggior parte delle compagnie, spiega Oil Change International, ha in mente di espandere la produzione di petrolio e gas al 2030.

E pure BP, l’unico colosso petrolifero che ha annunciato di voler tagliare la produzione, ha escluso da questo impegno la sua quota nel gigante russo Rosneft, che nel 2019 ha valso circa il 30% delle emissioni di CO2 associate agli investimenti estrattivi di BP.

Anche investire nelle energie rinnovabili non basta, se poi all’aumento di potenza installata nelle tecnologie pulite non corrisponde una riduzione dei giacimenti di oro nero e gas naturale.

E poi spesso, dietro l’impegno di ridurre l’intensità di carbonio dei prodotti petroliferi, si cela un inghippo.

Difatti, se una compagnia afferma di voler estrarre gli idrocarburi in modo più “pulito”, ad esempio utilizzando tecnologie più efficienti e consumando solamente energia elettrica di origine rinnovabile, e/o riducendo le emissioni “fuggitive” di metano che fuoriesce dai pozzi, ma poi nel complesso va a produrre più petrolio e gas di quanto faceva prima, finirà per emettere una quantità globalmente superiore di CO2 e altri gas-serra.

Quindi: intensità di carbonio inferiore, ma con emissioni cumulative in crescita.

L’unico modo per evitare una deriva simile, è fissare obiettivi “assoluti”, cioè in termini di riduzione totale della CO2 per un determinato segmento di attività.

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