Nonostante rappresentino solo il 6% dei prestiti delle banche più importanti dei Paesi del G7, i settori ad alta intensità di CO2 legati soprattutto ai combustibili fossili, sono responsabili di oltre la metà delle emissioni totali finanziate dalle banche stesse.
È il messaggio lanciato alla vigilia del vertice G7 Finanze di Stresa da ReCommon (associazione che promuove campagne contro le energie fossili) nel pubblicare ieri, 21 maggio, il suo rapporto “Unsupervised, the carbon pollution of the world’s largest banks” (link in basso). Il documento, più in generale, rivela come i principali istituti di credito globali siano responsabili di più emissioni di gas serra di Italia, Germania, Regno Unito e Francia messe insieme.
Le emissioni associate a 29 grandi banche ammontano a 2,7 miliardi di tonnellate nel 2022, contro i 2 miliardi dei quattro Paesi presi come riferimento.
Il dato è stato ricavato sulla base delle informazioni disponibili alla fine del 2022, ma secondo gli analisti di ReCommon sarebbe calcolato “ampiamente per difetto” a causa della mancanza di trasparenza e delle scarse pratiche di divulgazione da parte degli istituti di credito. In particolare, lo studio denuncia come la maggior parte delle banche non renda pubblici i dati sulle emissioni assolute ma fornisca solo le “metriche di intensità” calcolate su parametri secondari, come il valore d’impresa dell’azienda finanziata o il valore totale investito nella società.
“Se le più importanti banche del Pianeta fossero un Paese, sarebbero tra i primi inquinatori globali”, afferma in una nota Daniela Finamore, co-autrice del report, che rivolge un appello ai ministri delle Finanze prima dell’incontro: “Devono fermare il finanziamento dei combustibili fossili e indirizzarli tenendo come obiettivo l’interesse pubblico, in modo che tutti noi possiamo vivere in un clima più sicuro e in un’economia stabile”.
Tra i soggetti più coinvolti nel business fossile anche Intesa Sanpaolo, che dall’Accordo di Parigi ad oggi ha sostenuto il settore con 81,6 miliardi di dollari. Nell’anno appena trascorso ha stanziato 8,6 miliardi di dollari di investimenti e 7,5 miliardi di dollari di finanziamenti.
La quota del portafoglio di investimenti di Intesa Sanpaolo, che è stato possibile analizzare basandosi su dati trasparenti forniti dalla banca stessa, è pari al 5%. Mizuho, la terza più grande società di servizi finanziari in Giappone, è quella con la quota più alta, con il 60%. In fondo colossi come JP Morgan, Barclays e ING: in questi casi, tutta l’esposizione valutata per le emissioni di gas serra è stata effettuata utilizzando set di dati input-output esterni.
L’istituto di credito torinese è presente – tramite un finanziamento della controllata UBI Banca che ammonta a 160 milioni di dollari – nel controverso progetto Eni di estrazione di gas offshore in Mozambico Coral South LNG. Intesa Sanpaolo è anche esposta sul fronte del Gnl nell’area del Golfo del Messico, con 4,8 miliardi di dollari di finanziamenti concessi dal 2016 a oggi. Nel luglio del 2023, ha inoltre accordato un prestito di 1,08 miliardi di dollari per la realizzazione del mega terminal di export di gas naturale liquefatto texano Rio Grande LNG.
Sempre secondo un recente report di ReCommon, pubblicato a inizio aprile, l’Italia è tra i Paesi del G20 che finanziano di più i combustibili fossili con soldi pubblici.
Fra il 2020 e il 2022, rivelano gli analisti, le istituzioni finanziarie pubbliche dei Paesi del G20 e le banche multilaterali di sviluppo hanno concesso al settore fossile sussidi per 142 miliardi di dollari.
Il nostro Paese si posiziona al 5° posto a livello globale, dietro Canada, Corea del Sud, Giappone e Cina, scavalcando gli Stati Uniti, la Federazione russa e l’Arabia Saudita. Le “colpe” sono da imputare principalmente all’agenzia di credito all’esportazione Sace, che ha emesso garanzie (assicurazioni sui progetti o garanzie sui prestiti per la realizzazione dei progetti), per il settore degli idrocarburi, pari a 20 miliardi di euro.
- Lo studio (pdf)