La gigantesca sfida dell’Europa per le filiere chiave dell’energia pulita

Materiali, forza lavoro, capacità produttive: sarà enorme lo sforzo richiesto all’Ue per avere abbastanza moduli FV, batterie, pompe di calore e altre soluzioni essenziali per la transizione, diminuendo così la dipendenza dalla Cina.

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Gli investimenti in energia pulita hanno raggiunto 1.400 miliardi di dollari nel 2022, in aumento del 10% rispetto al 2021.

Oggi rappresentano quindi il 70% della crescita degli investimenti totali nel settore energetico. Eppure siamo solo all’inizio del percorso richiesto per i prossimi anni.

Il dato viene dal nuovo report della Iea sulle filiere delle tecnologie low carbon “Energy Technology Perspectives“, di cui abbiamo già parlato il giorno in cui è stato pubblicato ma che vale la pena di tornare ad aprire, vista la rilevanza delle questioni che affronta.

Si tratta, infatti, di ridisegnare un sistema energetico mondiale nel quale ad oggi le fonti fossili forniscono ancora l’80% dell’energia primaria e che dovrà arrivare ad emissioni nette zero in meno di tre decenni.

In questo contesto, dopo le dure lezioni in materia di affidabilità delle catene di fornitura e di sicurezza energetica impartite dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina, si è capito come sia strategico avere quanto più possibile in casa ciò che diventerà “il gas e il petrolio dei prossimi decenni”: filiere e materiali per produrre moduli fotovoltaici, turbine eoliche, batterie, pompe di calore, elettrolizzatori e tutte le altre tecnologie e la componentistica che ci permetteranno di abbandonare le vere fossili.

Lo mostrano bene le tensioni tra le grandi potenze nel contendersi le industrie chiave a colpi di aiuti pubblici, non ultime quelle tra Unione europea e Usa, con l’Europa che sta preparando un piano per ribattere al massiccio Inflaction Reduction Act varato da Biden.

Secondo l’ormai noto scenario Net Zero Emissions 2050 (NZE) della Iea, infatti, la produzione globale di auto elettriche aumenterà di sei volte entro il 2030 e per lo stesso anno le rinnovabili dovranno coprire il 60% della produzione elettrica, rispetto al 30% di oggi.

I progetti annunciati per espandere la capacità produttiva, mostra il report pubblicato giovedì scorso dell’Agenzia internazionale per l’energia, se si concretizzassero tutti, soddisferebbero le esigenze per il 2030 dello scenario NZE solo per i moduli fotovoltaici e per le batterie dei veicoli elettrici, ma non sarebbero all’altezza in altri comparti, lasciando un divario del 40% per gli elettrolizzatori e addirittura del 60% per le pompe di calore.

Sarebbero necessari 1.200 miliardi di dollari di investimento cumulativo, stima la Iea, per portare online una capacità sufficiente affinché le catene di approvvigionamento studiate nel rapporto (moduli FV, turbine eoliche, batterie, pompe di calore ed elettrolizzatori) siano in linea con gli obiettivi 2030 dello scenario NZE. Gli investimenti pianificati ad oggi coprono invece circa il 60% di questo totale.

La maggior parte degli investimenti dovrà deve essere impegnata già nei prossimi due anni: dal 2023 al 2025 bisognerebbe mettere sul piatto una media di 270 miliardi di dollari all’anno, quasi sette volte il tasso medio di investimento del periodo 2016-2021.

C’è poi la sfida dei materiali critici come rame, litio, cobalto e nichel, che, spiega la Iea. “stanno cambiando il paradigma della sicurezza energetica”. La produzione di un’auto elettrica richiede una quantità di questi materiali cinque volte superiore a quella di un’auto normale, sottolinea il rapporto.

Anche qui l’espansione dell’offerta che si delinea è gravemente insufficiente, con un deficit fino al 35% per l’estrazione del litio e del 60% per la produzione di solfato di nichel, mostra il report. Un problema rilevante, dato che in questo ambito sono molto lunghi i tempi per rendere produttivi nuovi giacimenti, come quello scoperto in Svezia.

Bisogna muoversi, è il messaggio dell’Agenzia: se per mettere in piedi una nuova fabbrica di moduli o di batterie possono bastare da uno a tre anni, far produrre una miniera di terre rare o realizzare sistemi di distribuzione dell’idrogeno può richiedere più di un decennio, si avverte.

Non è da trascurare poi anche la questione delle risorse umane. Stando allo scenario NZE della Iea, gli occupati nell’energia pulita devono passare da 33 a 70 milioni nel periodo 2021-2030 (a fronte di una perdita di 8,5 milioni nei settori legati ai combustibili fossili).

Avere una forza lavoro qualificata in numeri adeguati è cruciale. La carenza di manodopera e di competenze sta già creando colli di bottiglia, come nel nostro piccolo stiamo vedendo con la ripresa del fotovoltaico avvenuta in Italia negli ultimi due anni.

C’è infine la questione della concentrazione geografica delle materi prime. Sul lato dei minerali, ad esempio, la Repubblica Democratica del Congo fornisce oggi il 70% di cobalto, la Cina il 60% delle terre rare e l’Indonesia il 40% di nichel, l’Australia il 55% del litio e il Cile il 25%.

Anche la lavorazione di questi minerali è altamente concentrata: la Cina raffina il 90% delle terre rare e il 60-70% di litio e cobalto, oltre a pesare per circa la metà della produzione globale di acciaio grezzo, cemento e alluminio, in gran parte assoribito dal mercato domestico.

Sul fronte della produzione di tecnologie, le cose non vanno molto meglio per l’Europa. In Cina c’è almeno il 60% della capacità produttiva mondiale per fotovoltaico, eolico e batterie e il 40% della produzione di elettrolizzatori. Mentre l’Ue è generalmente un importatore netto, ad eccezione dei componenti delle turbine eoliche: circa un quarto delle auto elettriche e delle batterie e quasi tutti i moduli fotovoltaici e le celle a combustibile vengono importati, principalmente dalla Cina.

Per fotovoltaico (si veda il report Iea dedicato alla sola filiera del FV pubblicato lo scorso luglio) la Cina fornisce apparecchiature direttamente a tutti i mercati ad eccezione del Nord America. Gli Stati Uniti importano due terzi dei moduli fotovoltaici, principalmente dal sud-est asiatico, dove però le aziende cinesi hanno investito attivamente.

Come dicevamo, quanto questa situazione cambierà nei prossimi anni si sta decidendo ora: insieme, i progetti industriali annunciati negli Usa e in Ue andrebbero a soddisfare circa due terzi delle esigenze in linea con gli impegni 2030 sul clima Politiche come l’Inflation Reduction Act saranno determinanti e forse uno stimolo anche le politiche industriali che l’Europa dovrà mettere in campo.

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