I media sembrano aver finalmente captato il crescente interesse del pubblico per le tematiche ambientali. E hanno anche compreso che gli investimenti stanno virando sempre più verso le tecnologie pulite.
Green&Blue
Un esempio di questo deciso cambio di passo viene dal nuovo inserto mensile Green&Blue de La Repubblica. Ma perché questo nome? “Sono i colori dell’ambiente che incontra la scienza e l’economia”, leggiamo.
In realtà, mentre il significato di Green è chiaro a tutti, il Blue potrebbe ricordare l’acqua, ma anche il gas e, ancor più di attualità, l’idrogeno Blu, ottenuto dai combustibili fossili con il successivo sequestro della CO2. Si tratta dell’ipotesi su cui lavora l’Eni che intende seppellire l’anidride carbonica nei giacimenti esausti sotto l’Adriatico.
Ma è sicuramente solo un’interpretazione maliziosa. Andiamo ai fatti.
Alla fine dell’editoriale di presentazione si legge “E parliamo delle grandi e piccole imprese che stanno abbracciando la sostenibilità per un futuro migliore per tutti. Tutti. Perché la lotta al cambiamento climatico si vince o si perde assieme.”
Giusto. Salvo il fatto che c’è chi lavora per “vincere assieme” e c’è chi invece il cambiamento lo rallenta.
Ci sono tante imprese che hanno mutato le proprie strategie. Grandi gruppi come Enel, Erg o Ørsted ora puntano con decisione sulle rinnovabili. E una delle Sette Sorelle del petrolio, la BP, intende ridurre del 40% la produzione di gas e petrolio al 2030 e vuole realizzare 50.000 MW di rinnovabili.
Ecco, noi saremmo molto contenti che l’Eni seguisse la svolta impressa da altre Oil companies. E non si capisce come il Governo, che ha il controllo della società, non riesca a imporre un forte segnale di cambiamento.
E saremmo altrettanto lieti che Fca, proprietaria del gruppo editoriale cui si deve l’inserto, imboccasse con decisione la strada dell’auto elettrica dopo aver perso anni inutili a dileggiare questa opzione.
Insomma, vogliamo certo “vincere insieme”, ma questo deve significare remare nella stessa direzione.
Bene, dunque, il nuovo interesse per la transizione ecologica dell’economia. Ma questa rivoluzione deve essere chiara innanzitutto ad alcuni grandi gruppi presenti nelle pubblicità dell’inserto.
La UE accelera nella lotta climatica
Il recente, inaspettato, annuncio della Cina di voler diventare “carbon neutral” entro il 2060 rappresenta un segnale molto forte nella lotta climatica. E siamo certi che anche gli Usa, fra qualche anno o più probabilmente fra qualche mese, adotteranno obbiettivi simili a quelli indicati dall’Europa e da Pechino.
La UE, peraltro, intende consolidare la sua leadership grazie ai nuovi impegni al 2030: la Commissione propone infatti di tagliare del 55% le emissioni climalteranti rispetto ai valori del 1990 contro la riduzione del 40% finora prevista (vedi figura).
Il Parlamento europeo punta al 60%, mentre gli ambientalisti chiedono di arrivare al 65% (coerente con l’incremento di 1,5 °C). Vedremo la mediazione finale con gli Stati che si giocherà probabilmente sull’inclusione o meno del contributo delle foreste.
In ogni caso, questo salto in avanti comporterà una decisa rivisitazione dei Piani Energia Clima di tutti i paesi.
L’Italia, ad esempio, dovrà alzare la quota di rinnovabili elettriche dal 55% dei consumi ad un valore vicino ai due terzi della domanda di elettricità.
E questo significherà un’accelerazione dell’eolico e soprattutto del solare. Con la comparsa di soluzioni nuove, come le centrali off-shore e dell’agro-fotovoltaico.
Analogamente, dovrà esserci uno sforzo più significativo sul lato della riduzione dei consumi energetici. Visto che l’obbiettivo europeo al 2030 dovrebbe passare dal -32,5% al -35,5%, quello italiano dovrebbe alzarsi di due-tre punti.
Considerate le caratteristiche energetiche molto scadenti di larga parte del nostro parco edilizio, esistono in effetti i margini per una significativa riduzione dei consumi. Un Ecobonus rivisitato con i fondi europei a partire dal 2022 in termini decisamente più ambiziosi dal punto di vista energetico, potrebbe certo aiutare.
E ci dovrà essere anche un incremento del numero di auto elettriche al 2030. L’attuale obbiettivo al 2030 comporta un taglio del 37,5% delle emissioni di CO2 delle nuove auto alla fine del decennio. Con i nuovi target, la riduzione passerebbe al 50%, e il numero di auto elettriche sulle strade italiane al 2030, 6 milioni di cui 4 milioni elettriche pure, dovrà aumentare significativamente.
La proposta di Legambiente e Kyoto Club di fissare una data oltre la quale non si potranno vendere auto a combustione interna, analogamente a quanto deciso da nove paesi europei, incrementerebbe gli investimenti sulle auto elettriche. Noi abbiamo proposto il 2030, la California il mese scorso ha fissato come data limite il 2035.
Anche sul fronte dell’Emissions Trading che riguarda le industrie energivore, ci sarà una stretta per consentire una più rapida riduzione delle emissioni nel corso del decennio.
L’occasione dei fondi europei partoriti dal dramma del Covid
Quella delle risorse di Next Generation EU è certamente un’occasione che non possiamo sprecare.
Come molti hanno sottolineato, siamo però partiti con il piede sbagliato. I 577 progetti per 700 miliardi di euro arrivati dai Ministeri devono tornare nei loro cassetti, figli come sono di un approccio privo di coerenza e visione strategica.
E non dimentichiamo i progetti pervenuti dalle 14 Città metropolitane, che dovevano valere 2 miliardi per ogni realtà, ma hanno portato a cifre ben superiori. Roma ha presentato progetti per 25 miliardi, Milano per 4,5 miliardi, Palermo per 4,6 miliardi.
E poi arrivano anche le proposte dei vari comparti industriali… Reset.
Partiamo da alcuni principi base sui contenuti, le tempistiche, la complementarietà che devono avere i progetti. E riflettiamo sulle condizioni che consentano di spendere tutti questi soldi.
Innanzitutto, il 37% delle risorse deve essere destinato a investimenti e iniziative che favoriscano la transizione verde, mentre il 20% dovrà andare alla digitalizzazione. Un input europeo importantissimo in particolare per l’Italia, principale destinataria delle risorse.
Occorrerà inoltre impegnare il 60% delle risorse entro il 2022 e gli interventi andranno realizzati entro il 2026. Questo è un vincolo decisivo. Considerando le lentezze procedurali del nostro paese, il rischio di non spendere larga parte delle risorse è elevato.
A meno di riuscire a utilizzare questa occasione per una seria sburocratizzazione del paese.
Ricordiamo che del totale dei 53,2 miliardi del Fondo europeo per lo sviluppo regionale e del Fondo sociale europeo 2014-2020 e cofinanziamento nazionale, al 30 giugno 2019 era stato speso poco meno del 20%.
Infine, come ha ricordato il ministro del Sud, Provenzano, per favorire un riequilibrio territoriale, il 34% delle risorse dovrebbe andare al Mezzogiorno. E i progetti dovranno essere aggiuntivi rispetto alle politiche ordinarie di investimento dello Stato e ai fondi europei di coesione. Va cioè evitato il rischio che i fondi del Recovery Plan vadano a finanziare progetti già pronti, inseriti nell’ordinaria programmazione comunitaria.
Dove indirizzare questa gigantesca quantità di risorse
Leggendo i progetti pervenuti, c’è da mettersi le mani nei capelli. Tutti vogliono improvvisamente digitalizzarsi e convertirsi al verde.
Eclatante il caso del ministero dello Sviluppo economico che chiede 12,5 miliardi per potenziare la filiera industriale aerospaziale e della difesa, compresi i velivoli di attacco, sotto l’etichetta di «industria sostenibile». Progetti, naturalmente, “con ridotto impatto ambientale, totale sicurezza cyber e innovazione digitale”. Ci sono anche Comuni che chiedono risorse per nuovi cimiteri… e la lista sarebbe lunga.
Le prossime settimane saranno decisive per definire un serio piano di investimenti.
Nei paragrafi che seguono indichiamo alcune delle tante possibili sollecitazioni per avviare un percorso virtuoso sul fronte ambientale.
Al primo posto: difendere il paese dall’accelerazione climatica
Negli ultimi anni si è registrato un aumento esponenziale degli eventi di dissesto idrogeologico, quali frane e alluvioni, con effetti sempre più catastrofici, a causa della crescente antropizzazione del territorio.
“Aspettando la prossima Apocalisse”, scrive il neodirettore de La Stampa Giannini, dopo gli ultimi disastri nel Piemonte. Ecco, non possiamo proprio permetterci di aspettare.
Dobbiamo intervenire difendendo le popolazioni, sapendo che si possono garantire significativi vantaggi economici e occupazionali per il paese.
Nell’arco dell’ultimo ventennio l’Italia ha speso infatti molte più risorse per riparare i danni causati da eventi idrogeologici, come bombe d’acqua, frane, alluvioni, rispetto agli investimenti effettuati in prevenzione.
Secondo Ispra fra il 1998 e il 2018 gli interventi per riparare i danni sono costati oltre 20 miliardi di euro, il quadruplo degli investimenti effettuati in prevenzione.
Tutti gli ultimi Governi hanno lanciato programmi per intervenire rispetto al dissesto idrogeologico con investimenti dell’ordine di una decina di miliardi di euro per il medio periodo.
Le risorse però bisogna saperle spendere.
La Corte dei Conti nel 2019 sottolineava “l’inadeguatezza delle procedure della debolezza delle strutture attuative degli interventi, dell’assenza di controlli e monitoraggi” e “le procedure lente di assegnazione delle risorse e altre vischiosità nei procedimenti”.
Questo è un settore che deve avere assoluta priorità, con risorse addizionali rispetto a quelle già previste e con un deciso snellimento delle procedure.
Ma, soprattutto, serve un’azione preventiva di larga portata, una manutenzione innovativa del territorio in grado di tener conto della accelerazione degli eventi estremi.
Rilanciare l’industria puntando alla sfida climatica
Ma non basta difendersi… Occorre cogliere questa occasione per ricostruire la base produttiva in un paese in via di deindustrializzazione.
L’Italia dovrà, anche attraverso alleanze internazionali, investire nei settori che configurano il futuro degli scenari di decarbonizzazione.
Sono diverse le industrie trainanti nei prossimi decenni sulle quali concentrare risorse: sistemi di accumulo, fotovoltaico, eolico off-shore, veicoli elettrici, elettrolizzatori, bio-raffinerie, acciaierie verdi…
Come ha giustamente affermato Confindustria Emilia-Romagna, in riferimento alla riconversione verso la mobilità elettrica delle aziende della “motor valley”, o cambiamo o moriamo.
Per fare un esempio su questo fronte, si dovrebbero finanziare adeguatamente industrie in grado di sfornare nel giro di 2-3 anni autobus elettrici competitivi. E naturalmente va creata la domanda. Tutte le città dovrebbero darsi l’obbiettivo del Comune di Milano che vuole il trasporto pubblico tutto elettrico entro il 2030.
Poi c’è l’idrogeno. Tutti parlano di idrogeno. Per alcune applicazioni sarà essenziale, per altre (auto, riscaldamento case) inutile e controproducente. E bisogna inoltre capire come si intende produrlo. Sappiamo che mentre molti paesi europei puntano sulle rinnovabili, l’Eni intende partire dai fossili.
Si parla complessivamente di finanziamenti per 3,5 miliardi. Il giudizio resta sospeso. Dipende da come si intende spenderli.
Puntare sull’innovazione
Dovremo, infine, fare un grande salto nelle attività di ricerca e sperimentazione, nella formazione di competenze, di personale in grado di affrontare le sfide che ci aspettano. La percentuale di risorse dedicate alla ricerca (1,4% del Pil) è molto inferiore a quella degli altri paesi europei.
Dopo gli shock petroliferi degli anni ‘70 ci fu il tentativo di reagire lanciando il Progetto Finalizzato Energetica che vedeva impegnati centri di ricerca pubblici e privati, con una dotazione di 260 miliardi di lire.
La sfida che abbiamo di fronte, l’emergenza climatica, è sicuramente di dimensioni maggiori di quella di 40 anni fa.
È dunque auspicabile uno sforzo coordinato del paese volto a innovare i comparti trainanti nella nuova economia Green.
L’articolo verrà pubblicato come editoriale sul n.4/2020 della rivista bimestrale Qualenergia.