La chiusura o il ridimensionamento di uno o più stabilimenti della società di componentistica auto “Magneti Marelli” non è un esempio delle difficoltà, degli svantaggi o, addirittura, dell’impossibilità di una transizione energetica equa e relativamente indolore.
È al contrario un esempio di transizione energetica mancata, tradita, di rigidità industriale, di incapacità di programmare una transizione da parte delle società che hanno controllato “Magneti Marelli” negli ultimi decenni, e cioè Fiat/FCA prima e il fondo americano KKR poi, dopo che FCA vendette l’attività dei componenti nel 2018.
Le difficoltà attuali di quella che dopo lo scorporo si chiama Marelli Holdings affondano cioè le loro radici in mancanza di visione, cattiva strategia e priorità sbagliate nei lunghi anni che hanno preceduto la crisi.
A queste mancanze, si sono poi aggiunti più di recente sfide e ostacoli esogeni, rappresentati dalla pandemia, dai colli di bottiglia nella filiera dei semiconduttori e, ultimamente, dal rialzo dei tassi d’interesse, che hanno esacerbato gli effetti delle scelte sbagliate degli anni precedenti.
Il “peccato originale”
È impossibile riassumere tutta la vicenda in poche righe. Tuttavia, si possono delineare alcuni punti chiave. In particolare il grande scetticismo di Sergio Marchionne, l’ormai defunto ex amministratore delegato di Fiat/FCA, sulla fattibilità di un sistema basato interamente sulla propulsione elettrica.
Nel 2014, Marchionne dichiarò a Washington: “Spero che non compriate la 500 elettrica, perché ogni volta che ne vendo una perdo 14.000 dollari”. All’epoca, la strategia di FCA sulle auto elettriche era incentrata sul mero adempimento delle normative, come quella della California.
Marchionne ha continuato a essere scettico sull’elettrico nel corso degli anni, sottolineando la necessità di esplorare tutte le soluzioni tecnologiche, a partire dal metano: non credeva che l’elettrico fosse la soluzione definitiva per il settore automobilistico.
Solo nel 2018, con anni di ritardo, poco prima della sua morte, Marchionne fu costretto a prendere atto di una realtà in rapida evoluzione, annunciando un investimento di 9 miliardi di euro per l’elettrificazione dei modelli Fiat Chrysler.
“Marchionne è stato sicuramente un grande dirigente, ma sull’elettrico, con tutto il rispetto per la sua figura, è stato un freno che ha portato a conseguenze gravissime non solo per il gruppo, ma anche per l’arretratezza a livello europeo”, ha commentato a QualEnergia.it Daniele Invernizzi, Presidente e fondatore di eV-Now!.
La storia più recente
Marelli nacque nell’ottobre 2018, quando FCA vendette Magneti Marelli per 6,2 miliardi di euro al gruppo d’investimento americano KKR, che di lì a poco procedette a fondere l’azienda italiana con la giapponese Calsonic Kansei, a sua volta integralmente controllata dal fondo Usa.
Oltre a fornire risorse fresche e a riequilibrare le molte passività di FCA, la vendita di Magneti Marelli doveva essere, almeno sulla carta, un’operazione industriale vincente, volta a creare valore e dar vita a un gigante della componentistica, capace di confrontarsi alla pari con le società leader del settore.
Uno dei problemi, però, è che KKR acquistò Magneti Marelli tramite un leveraged buyout, un tipo di operazione in cui la società acquirente ne compra un’altra utilizzando molto denaro preso in prestito e usando le attività della stessa società acquisita come garanzia per tutti o una parte dei prestiti ricevuti.
In altre parole, KKR caricò Marelli di nuovi debiti. Questa non è di per sé garanzia di insuccesso, ma certamente un massiccio indebitamento può essere gestito e smaltito solo se l’azienda va bene. E comunque la espone di più ad eventuali rovesci macroeconomici, di settore o di altro tipo.
Rovesci esterni di ogni tipo
Come ben si sa, invece, dal marzo del 2020 si è succeduta una serie impressionante di rovesci di ogni tipo, che hanno aumentato i costi e ridotto i profitti di Marelli, e che basterà elencare senza soffermarcisi.
La pandemia, i colli di bottiglia logistici, i colli di bottiglia produttivi, legati soprattutto alla carenza mondiale di semiconduttori e di elettronica di potenza, la guerra in Ucraina, la crisi energetica, il caro-benzina, l’aumento dei tassi d’interesse e la difficoltà a rifinanziare il debito hanno messo molto in difficoltà una società oberata di prestiti come la ex controllata di Fiat.
I problemi interni
Sul fronte interno all’azienda e al settore componenti, dalla fine dell’anno scorso non ci sono rappresentanti italiani né nel top management né nel consiglio di amministrazione di Marelli. Anche nell’ambito della fusione fra FCA e la francese Peugeot, annunciata nell’ottobre 2019 con la nascita di Stellantis, le leve esecutive del gruppo sembrano più in mano francese che italiana.
La filiera dei componenti è presidiata soprattutto dalla francese Forvia, ex Faurecia, fulcro della più organizzata catena di fornitura transalpina, capace di orientare la politica di fornitura di Stellantis e di regolarne i flussi, secondo Industria Italiana.
Forvia è rimasta saldamente all’interno del perimetro di Stellantis, tramite Peugeot, mentre Marelli fatica a trovare spazi. Dall’altra parte, una volta scorporata da FCA e in mano a un gruppo americano con partner giapponesi, Marelli fatica anche a guidare l’industria componentistica auto italiana, molto disaggregata e senza più un punto di riferimento sicuro.
I nodi che vengono al pettine
In base a quanto sintetizzato finora, si può cominciare a tirare le fila delle cause che stanno determinando la crisi di Marelli.
Si tratta di fattori che poco o nulla hanno a che fare con la transizione energetica, ma più che altro con scelte sbagliate, mancanza di visione strategica e carenza di gestione del rischio da parte dei protagonisti della vicenda.
Se Fiat/FCA avesse assecondato la transizione e si fosse preparata prima e meglio al cambiamento, invece di opporvisi ostinatamente per lungo tempo, la storia che stiamo raccontando sarebbe probabilmente diversa. Se lo scorporo di Marelli fosse avvenuto con una logica di creazione di valore, per esempio con una quotazione in borsa, come quella di Ferrari, invece che con una operazione a debito di matrice più finanziaria che industriale, la situazione sarebbe forse migliore, a parità di shock esogeni.
Sebbene ci siano eccellenze nell’ambito dell’elettrico anche all’interno di Marelli, il problema di fondo è che questa azienda e una parte consistente della componentistica auto italiana sono tuttora ancorate ai motori endotermici, una scelta figlia delle decisioni prese nel corso degli anni da Fiat/FCA, che rappresentava lo sbocco naturale di una fetta importante dei componenti Made in Italy.
Si sapeva, però, che la propulsione elettrica comporta una grande semplificazione del motore, con una forte riduzione del numero e della complessità dei componenti necessari. Si sapeva che con l’elettrificazione dei veicoli le attività si sarebbero spostate su altri comparti, come le batterie e le infrastrutture di ricarica.
Si è cominciato a pensare a questa transizione con anni di ritardo in Italia, un paese privo anche di una guida politica efficace e lungimirante, capace di indirizzare e favorire la transizione dai motori termici a quelli elettrici.
Tutto si tiene, nel bene e nel male, e date queste premesse non c’è, purtroppo, da sorprendersi se già a luglio del 2022, in sincronia con i primi rialzi dei tassi d’interesse, a fronte di un debito di circa 8 miliardi di euro, Marelli ha dovuto proporre un piano di ristrutturazione.
Il piano prevede più di tremila tagli del personale, di cui circa 500 in Italia, e la chiusura di alcune sedi nel mondo, fra cui l’impianto di Crevalcore, vicino Bologna, oltre che un’iniezione di capitale da parte di KKR e la cancellazione di parte del debito bancario.
Crisi e scioperi. E ora?
Nei giorni scorsi, a Crevalcore, i sindacati hanno annunciato uno sciopero contro la chiusura. I lavoratori dello stabilimento si sono mobilitati con un presidio permanente davanti alla fabbrica. Sulla scia delle proteste, Marelli ha sospeso la procedura di cessazione dell’impianto fino al prossimo incontro con governo e sindacati, previsto il 3 ottobre. I sindacati hanno accolto con favore la mossa.
“Questo ci permette di iniziare il dialogo senza che il tempo sia già scaduto. Vogliamo una discussione per raggiungere una soluzione che garantisca la continuità della produzione e dei posti di lavoro nel sito di Crevalcore”, hanno dichiarato i sindacati in un comunicato.
Si tratta di iniziative doverose e si spera che non si debba ricorrere a chiusure e licenziamenti. Significa però correre ai ripari quando i buoi sono ormai scappati. Quello di Marelli è un concentrato di cattiva gestione industriale, finanziaria e politica, la cui colpa non deve ricadere sull’idea stessa di transizione energetica, sui suoi tempi e su ciò che essa comporta.
“È stata una strategia miope per la quale abbiamo creduto e continuiamo, purtroppo in alcuni casi, a credere che l’endotermico possa beneficiare ancora di una nicchia potentissima, che il vecchio continente potrà continuare a portare avanti a suo profitto. Invece, tutti i fatti ci dimostrano esattamente il contrario”, ha detto Invernizzi.
È la stessa poca lungimiranza e approccio emergenziale che oggi porta l’Europa a pensare alle barriere commerciali contro la Cina, sempre sul fronte delle auto elettriche.
“Invece di prendere il coraggio a due mani e mettere sul tavolo almeno 400 miliardi di euro per ricerca, sviluppo, competitività e industrializzazione, come hanno fatto gli Usa con l’Inflation Reduction Act, si mettono dei dazi per cercare di difendersi da prodotti che sono oggettivamente fatti bene e venti anni più avanti rispetto a noi. Significa che questa classe dirigente, nella sua visione miope, ci ha portati dove siamo ora”, ha concluso il fondatore di eV-Now!.