COP29, il summit climatico si svuota mentre le catastrofi ambientali aumentano

Molti dei grandi leader mondiali non saranno presenti al vertice di Baku. C'è indifferenza nell'opinione pubblica, mentre la crisi climatica avanza e i temi sul tavolo sono tanti e sempre più urgenti.

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Tra pochi giorni inizierà a Baku, in Azerbaigian, quello che in teoria dovrebbe essere il più importante summit mondiale sul clima.

La ventinovesima Conference of Parties, la riunione annuale dei Paesi (11-22 novembre) che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), resta però ammantata da una sostanziale indifferenza.

Forse complice la recente tornata elettorale americana, che ha monopolizzato il dibattito pubblico delle ultime settimane. Forse una graduale presa di coscienza che il dibattito sul clima ha sempre meno influenza sulle masse, e l’elezione di Donald Trump a quarantasettesimo presidente degli Usa ne è una prova.

Non sembrano essere bastate le recenti catastrofi ambientali, come l’alluvione che ha colpito Valencia, a farci cambiare idea.

Così alla COP29 di Baku i grandi del mondo non ci saranno. Mancherà la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, troppo impegnata nella definizione dei nuovi commissari che guideranno l’esecutivo comunitario per i prossimi cinque anni. Non ci sarà Joe Biden, uscito con le ossa rotte dall’Election Day. Assente anche il presidente francese Emmanuel Macron, così come il leader brasiliano Lula (per motivi di salute) e ovviamente il presidente russo Putin.

Questo non vuol dire che i Paesi non saranno rappresentati alla Conferenza, ci saranno i delegati; ad esempio per l’Ue presenzieranno il presidente del Consiglio Charles Michel e il Commissario per l’azione per il clima, Wopke Hoekstra, ma è un chiaro segnale di debolezza dell’intero evento e della risoluzione finale che ne deriverà.

Un documento che già di suo fatica ad essere incisivo. Perché non rappresenta un atto vincolante, e soprattutto perché deve tenere dentro esigenze di Paesi molto diversi, inclusi quelli reticenti ad abbracciare le politiche climatiche ed energetiche radicali di cui abbiamo urgentemente bisogno.

L’ultimo atto redatto dopo la COP28 di Dubai ad esempio si incartò sul “phase out” dai combustibili fossili, termine poi annacquato in “transitioning away”, che non escludeva del tutto il ricorso alle fonti sporche nell’immediato futuro.

L’eventualità che anche quest’anno la montagna partorisca un topolino è concreta. Eppure, temi da discutere e problemi da risolvere ce ne sarebbero.

Cosa aspettarsi dalla COP29 di Baku

Uno degli argomenti centrali sarà l’istituzione di un nuovo obiettivo collettivo quantificato sui finanziamenti per il clima.

Si arriva ad ipotizzare fino a mille miliardi di dollari all’anno, per sostenere i Paesi in via di sviluppo: una sfida significativa, soprattutto considerando che il precedente impegno di 100 miliardi di dollari all’anno non è stato pienamente rispettato ed è stato prorogato, sollevando preoccupazioni sulla volontà politica di alcuni governi di voler contribuire.

Un altro aspetto centrale è l’operatività dell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, che riguarda i mercati internazionali del carbonio. L’attuazione di questo articolo è considerata essenziale per creare meccanismi efficaci di scambio del carbonio e mobilitare maggiori investimenti per la mitigazione del clima. Tuttavia, restano divergenze tecniche e politiche tra i Paesi, con discussioni che riguardano la definizione di “carbon removal”.

La COP29 prevede anche una revisione degli impegni dei Paesi per incrementare i Contributi determinati a livello nazionale (Nationally Determined Contributions, NDC) per allinearli all’obiettivo di limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5 °C. Ma il quadro a livello globale non è rassicurante per quanto riguarda la disponibilità di tutte le parti a rafforzare gli impegni assunti finora.

È anche urgente definire chiaramente il finanziamento per il fondo di perdite e danni, istituito durante la COP27 senza però che si identificassero gli elementi chiave per renderlo operativo, e stabilire meccanismi per rendere accessibili queste risorse ai Paesi più vulnerabili agli impatti climatici.

L’adattamento sarà un altro tema chiave, con l’obiettivo di rafforzare le strategie di adattamento nei Paesi in via di sviluppo e migliorare il supporto finanziario per queste iniziative.

I Paesi del G20 non fanno abbastanza

Un’analisi di BloombergNEF suggerisce che soltanto alcuni governi del G20 hanno fatto progressi nell’implementazione di politiche solide per affrontare il cambiamento climatico.

La quinta edizione del Climate Policy Factbook (vedi in basso) di Bnef valuta le prestazioni del G20 in tre aree: sussidi ai combustibili fossili, carbon pricing e politiche sui rischi climatici.

I governi del G20 e gli enti statali hanno fornito 1,1 trilioni di dollari in supporto ai combustibili fossili nel 2022, di gran lunga la somma più alta da almeno un decennio. I grandi del mondo continuano ad ampliare la propria flotta di centrali elettriche a carbone, aumentando la capacità di generazione del 3% nel periodo 2019-2023.

La potenza di queste centrali ammonta a circa 2 TW, con altri 0,6 TW in cantiere. Cina e Giappone sono ora classificati nel Climate Policy Factbook come Paesi che stanno facendo progressi insufficienti nel sostegno ai combustibili fossili, mentre Canada e Regno Unito sono stati declassati a “progressi misti”.

Non sono ancora disponibili dati a livello nazionale per i sussidi ai combustibili fossili del 2023. Tuttavia, le prime stime suggeriscono che i Paesi del G20 ha fornito 945 miliardi di dollari di supporto per carbone, gas, petrolio.

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Contemporaneamente, però, un numero crescente di membri del G20 ha istituito tasse sul carbonio. La tariffazione di questa fonte copre ora il 29% delle emissioni del G20.

Sulle politiche di rischio climatico invece si allarga il divario tra Paesi o aree all’avanguardia come Unione europea, Brasile e Regno Unito, che hanno compiuto progressi sostanziali, e altri come Argentina, Arabia Saudita e Russia, che non hanno regole per imporre alle aziende e alle istituzioni finanziarie di valutare, segnalare e mitigare la loro esposizione ai rischi legati al clima.

Dopo aver compiuto progressi significativi nell’ultimo anno, Turchia e Stati Uniti sono passati alla categoria di rating superiore.

Il deficit di investimento nelle energie rinnovabili

L’Institute for Energy Economics and Financial Analysis (Ieefa) ha invece pubblicato un breve documento (pdf) in cui invita i rappresentanti dei diversi Paesi presenti alla COP29 a sostenere le banche nel concedere maggiori prestiti agli operatori delle energie rinnovabili.

Lo studio analizza l’andamento degli investimenti globali nelle Fer e le lacune previste per raggiungere l’obiettivo di triplicarne la capacità entro il 2030 rispetto al 2023 (obiettivo fissato alla COP28).

Si rileva che gli investimenti globali nelle fonti rinnovabili sono passati da un range di 329-424 miliardi di dollari nel 2019 a 570-735 miliardi nel 2023, con un aumento del 73-78%.

Tuttavia, l’investimento medio annuo per raggiungere l’obiettivo di triplicare le energie rinnovabili richiederà tra i 1.000 e i 1.500 miliardi di dollari dal 2024 al 2030. Di conseguenza, il deficit medio di finanziamento tra il 2024 e il 2030 potrà essere di 400 miliardi di dollari all’anno.

L’Ieefa sottolinea diversi modi per incoraggiare le banche ad accelerare, come dare priorità ai prestiti per le energie rinnovabili, integrare il cambiamento climatico nelle politiche bancarie, oppure rendere obbligatoria la divulgazione delle emissioni finanziate.

Le banche multilaterali di sviluppo e le istituzioni finanziarie bilaterali, con il sostegno dei governi locali, potrebbero inoltre fornire capitali di rischio a condizioni agevolate alle banche locali e contribuire a creare strumenti di garanzia parziale del rischio di impresa.

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