Neppure le più apocalittiche scene dei film catastrofisti americani, anche con l’intelligenza artificiale più avanzata, avrebbero potuto eguagliare l’orrore reale vissuto nei dintorni di Valencia in questi giorni.
Un altro evento estremo che, in un mondo razionale, dovrebbe segnare la condanna definitiva per tutti i negazionisti climatici che continuano a ignorare l’evidenza, come se la natura potesse essere sottomessa senza conseguenze.
Se sfidi la natura, questa non solo non collabora, ma può annientare tutto ciò che con arroganza consideravi una tua ricchezza e frutto dell’intelligenza umana: case, strade, ponti, centri commerciali, coltivazioni e soprattutto automobili, quelle automobili che ci dominano.
Fiumi di veicoli trascinati da torrenti impetuosi, e poi, come in una scena biblica, al ritirarsi delle acque rimangono ammassi di lamiere contorte trasformate in tombe per centinaia di persone. Un simbolo potente di una civiltà che si accartoccia su se stessa.
Quelle auto ammucchiate l’una sull’altra ci urlano in faccia una verità scomoda: per decenni abbiamo permesso che le auto orientassero le nostre scelte economiche e le nostre infrastrutture, stravolgendo il paesaggio, la nostra aria e il nostro ambiente costruito, fino a perderne completamente il controllo.
E oggi continuiamo pure ad appoggiare in tanti modi diversi quelli che un tempo erano i benefattori dell’umanità: i fornitori di energia fossile, di petrolio, gas e carbone. Quei “buoni” di ieri, oggi sono diventati gli agenti del degrado climatico, che vogliono continuare a usare la nostra atmosfera come una discarica, sostenuti dai governi e dalle scelte a volte inconsapevoli dei consumatori. Come se tutti fossero ignari delle conseguenze e delle alternative che abbiamo.
Quelle scene viste in Spagna, come in Italia e nel centro Europa, che prima associavamo a terre lontane, ora si ripetono con una frequenza impressionante alle nostre latitudini. Ma davvero queste immagini resteranno impresse a lungo nella nostra memoria, o continueremo a chiudere gli occhi di fronte ad una realtà che non vogliamo accettare?
I dubbi sono leciti. La scienza del clima, quella autentica, non quella dei ciarlatani che sproloquiano idiozie sui social o trovano spazio nella stampa più infima, ci spiega da oltre 40 anni cause ed effetti, forse persino sottostimando la gravità di questi ultimi. Eppure questa scienza parla ancora un linguaggio che fatica ad arrivare alla massa: concetti e termini complessi, forse qualche grafico o numero di troppo, e un approccio spesso autoreferenziale.
Poi c’è una classe politica mediocre, indifferente, capace però di sperperare, sotto la pressione di altre lobby, ogni anno somme intollerabili in armamenti, fondi che dovrebbero invece essere destinati ai servizi essenziali: sanità, istruzione, trasporto pubblico, giustizia, assistenza sociale e integrazione.
E tra questi, ormai imprescindibili, c’è la cura dell’ambiente con interventi massicci e continui in mitigazione (energie rinnovabili ed efficienza energetica in primis) e in adattamento, capitoli di spesa che dovrebbero essere moltiplicati per dieci o per venti e costanti nel tempo.
Gli interventi di adattamento climatico dovrebbero oggi essere il fulcro delle politiche locali, nazionali e globali, affidati a un rigoroso controllo di autorità scientifiche competenti, e sicuramente non lasciati nelle sole mani di politici incompetenti e, a volte, corrotti.
Misure di adattamento che sono fondamentali per tentare di limitare la vulnerabilità delle nostre società, delle economie e degli ecosistemi, e fronteggiare l’impatto di eventi meteorologici sempre più estremi, l’innalzamento del livello del mare, le alterazioni radicali nei modelli di precipitazione, la siccità.
Non è un catastrofismo da quattro soldi: abbiamo sotto gli occhi prove inconfutabili che le nostre città, campagne e montagne sono sempre più fragili, così come le nostre società e le nostre vite.
In Italia, secondo un rapporto del Censis-Confcooperative, tra il 1980 e il 2022, i cambiamenti climatici avrebbero prodotto danni per 111 miliardi di euro, di cui 57,1 miliardi attribuibili alle alluvioni e 8,2 miliardi a siccità, incendi boschivi e ondate di freddo.
La Corte dei Conti nel 2023 ha evidenziato che, a causa della maggiore frequenza di frane e alluvioni sul territorio italiano, la spesa nazionale per il dissesto idrogeologico è triplicata, passando nel periodo 2010-2023 da una media di 1 miliardo di euro all’anno a 3,3 miliardi annui. La crisi idrica nel 2022, secondo Coldiretti, avrebbe causato la perdita di un terzo dei raccolti, con un costo potenziale fino a 6 miliardi di euro.
Eppure, nella bozza della legge di bilancio il nostro governo stanzia 13 miliardi all’anno per la spesa militare, circa 40 in tre anni e appena un decimo per interventi a difesa del territorio.
Sappiamo che realizzare serie misure di adattamento alla crisi climatica richiede tanto lavoro, conoscenza, studio approfondito e, soprattutto, tempo. Tempo che la politica, intenta a cavalcare il presente con una visione miope e a brevissimo termine (ammesso che una visione esista), non è disposta a investire.
Che ritorno d’immagine avrebbe una politica impegnata a risanare infrastrutture fatiscenti, prevenire le alluvioni urbane, gestire le risorse idriche, curare il dissesto idrogeologico, e così via? Nessuno, ovviamente, perché sono misure che richiedono anni, se non decenni, e non alimentano quel narcisismo politico che vuole riscontri immediati.
E così, avremo altri disastri, l’evaporazione di investimenti di una vita e altri morti. Tragedie in paesi lontani ignorate dai media e tragedie più vicine a noi, sotto i riflettori per qualche giorno, solo per essere dimenticate dopo lacrime di coccodrillo e il solito imbarazzante balletto dello scaricabarile.
Dobbiamo allora costringere a mettere all’ordine del giorno i cambiamenti climatici e le sue soluzioni in ogni ambito della società: dalla scuola all’università, nei dibattiti pubblici e televisivi e nelle priorità dei politici che votiamo.
Sebbene queste righe sembrino lasciare poco spazio alla speranza, non possiamo permetterci la rassegnazione. Anzi, è il momento di reagire.
Gli esseri umani tendono a sviluppare routine e abitudini che danno quel senso confortevole di stabilità e sicurezza, però oggi sempre meno saldo. Cambiamenti nello stile di vita, così come le innovazioni tecnologiche (si vedano le opposizioni agli impianti a fonti rinnovabili e alla mobilità elettrica), spesso richiedono il superamento di queste abitudini e di vecchie competenze consolidate, ma ciò può generare resistenza e rimozione.
Aggiungiamo a questo la diffusione di fake news attraverso i media, che amplificano paure irrazionali o pregiudizi verso concetti scientifici certamente complessi.
Serve più spazio per una informazione corretta e più formazione su questi temi, anche per ridurre i timori e aumentare conoscenze e competenze. Sono e saranno questioni divisive e cause di aspri conflitti economici e sociali; dobbiamo saperlo e prepararci.
È necessario perciò coinvolgere le persone con una comunicazione chiara e trasparente sui rischi del clima, meno ansiogena, più concreta e orientata alle soluzioni, poiché tanto ormai la realtà supera ogni più pessimistica previsione. Una comunicazione che sappia spiegare soprattutto i benefici di una società capace di non mettere sempre al centro i bisogni dell’Homo oeconomicus, ma dell’ambiente, da cui alla fine tutti dipendiamo.
Costruire questo nuovo modello di convivenza è complesso e sarà la vera sfida dei prossimi decenni, al di là delle rigide ideologie che, come diceva Bertrand Russell, “oltre a essere dannose, sono anche false”.