I sintomi climatici c’erano tutti e da tempo. Ma ora che si è evidenziata in tutta la propria virulenza la malattia climatica, la politica tace, mentre i media raccontano in prima pagina il dramma di Valencia, sommersa in otto ore dalla pioggia prevista per un anno.
Reazioni mediatiche e politiche agli eventi climatici estremi
Esemplare la dichiarazione del Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni che sui social ha detto: “Desidero esprimere la mia solidarietà e quella del Governo italiano alla comunità spagnola duramente colpita dalle alluvioni che hanno messo in ginocchio interi territori, in particolare la città di Valencia. Rivolgo il mio pensiero di vicinanza ai familiari delle vittime. L’Italia è vicina alla Spagna in questo terribile momento”.
Nulla ha detto sul clima che cambia.
Come se l’esacerbarsi dei fenomeni meteo fossero fenomeni “imprevedibili” alla pari dei terremoti. E le reazioni di altri politici sono analoghe.
Il Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha dichiarato la propria vicinanza alla popolazione spagnola, affermando che l’Europa è pronta a fornire aiuto concreto.
Il premier spagnolo, Pedro Sánchez, ha espresso profondo dolore per le vittime e ha indicato come priorità del governo il ritrovamento dei dispersi e il supporto alle comunità per la ricostruzione delle infrastrutture danneggiate, mentre Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea, è stata uno dei pochi politici a definire l’alluvione come una devastazione legata ai cambiamenti climatici, puntando al monitoraggio attraverso il programma Copernicus per l’adattamento ai cambiamenti climatici, aggiungendo solo un generico bisogno di combattere direttamente i cambiamenti climatici.
Da parte della politica si tace sulle cause dei cambiamenti climatici, evitando in maniera accurata il termine emissioni.
Peraltro, se ne parla esclusivamente quando questi fenomeni colpiscono da vicino il ricco Occidente, come è successo nei mesi scorsi in Europa e negli Stati Uniti, mentre, per fare un esempio, la comunicazione mediatica e politica ha ignorato nel 2022 l’alluvione del Pakistan che ha fatto 1.700 vittime, coinvolgendo 33 milioni di persone, distruggendo 1,7 milioni di case e 1,7 milioni di ettari di campi coltivati costringendo 7,9 milioni persone ad abbandonare le proprie case. Il tutto con un costo stimato dalle Nazioni Unite di 30 miliardi di dollari.
Decarbonizzazione e rallentamenti: l’influenza delle lobby fossili
Intanto il percorso verso la decarbonizzazione viene rallentato anche e soprattutto grazie a forze fossili che fanno quadrato.
Non sfugge, infatti, che nonostante gli evidenti segnali della crisi climatica arrivano forti indizi di frenata, specialmente sul fronte sociale.
L’opposizione alle politiche climatiche è passata dal negazionismo più stretto, alla negazione di una serie di elementi necessari alla decarbonizzazione che passano attraverso la strumentale “difesa” di settori sociali.
In Italia, e più in generale in Europa, l’alibi sono i posti di lavoro legati al settore dell’automotive in crisi, secondo alcune imprese e governi prima a causa dell’auto elettrica, poi della Cina che si sarebbe impossessata del relativo mercato. Una mistificazione.
Solo quattro anni fa tutto il settore dell’automotive europeo si era speso per un enorme sostegno dell’auto elettrica, specialmente in Europa.
La maggior parte delle industrie automobilistiche europee aveva detto di puntare sull’elettrico, non per una sorta di virtuosità climatica, ma in vista di un ricambio “obbligato” per legge dell’intero parco auto europeo fossile che è composto da 245 milioni di auto endotermiche, al netto dei 7 milioni di quelle elettriche.
Se consideriamo il fatto che il costo medio di un’auto elettrica in Europa da qui al 2035 si può stimare in 30mila euro (oggi è di 46mila), il ricambio totale del parco auto in Europa varrebbe un fatturato di ben 7.350 miliardi di euro.
Ma il meccanismo si deve essere inceppato visto che c’è stato un repentino ripensamento, mascherato dalla questione dell’accettabilità sociale delle questioni climatiche, che poi sono solo un pretesto.
Disinteresse verso la Cop29 e il silenzio dei media
Sulla questione automotive ci torneremo, ora il focus è il clima, anche per la prossimità con la Cop29 che si terrà per l’ennesima volta in una nazione, l’Azerbajan, che ha dichiarato esplicitamente di voler aumentare le proprie estrazioni di combustibili fossili.
E proprio sulla Cop29 si verifica l’ennesima “indifferenza” generale.
Mentre negli anni scorsi il rilievo mediatico sulle questioni climatiche s’accendeva di solito almeno un paio di mesi prima, oggi a pochi giorni di distanza è difficile imbattersi in articoli sul clima.
Cosa che è dimostrata anche dalle analisi di Greenpeace Italia che con l’Osservatorio di Pavia monitora la relazione media e clima.
Nel 2023 in Italia 3 articoli al giorno citavano i cambiamenti climatici che sono diventati 2,9 nel primo quadrimestre del 2024.
Nel frattempo, la presenza crescente di annunci pubblicitari di aziende fossili nei media solleva interrogativi sull’influenza economica e sulle possibili implicazioni per la neutralità editoriale.
Cambiamenti climatici e la politica del “dettaglio”
Dobbiamo aggiungere che nelle elezioni presidenziali statunitensi, secondo un sondaggio del Pew Research Center, i cambiamenti climatici si sono classificati al 17º posto su 21 questioni rilevanti per gli elettori. Il tema è quindi marginale nelle priorità politiche e degli elettori.
In Italia si nota che sul blocco delle rinnovabili in Sardegna voluto dalla Governatrice della Regione, Alessandra Todde, che guida la giunta del centrosinistra, i cambiamenti climatici non sono mai menzionati né dal media locali, e nemmeno dai comitati che appoggiano questa decisione.
Anche i governi nazionali nell’Ue li citano sempre con meno enfasi e dettaglio.
Vecchi modelli di sviluppo e transizione energetica: conflitto irreversibile
Sul dettaglio è necessario fare una riflessione. Oggi la discussione sui cambiamenti climatici si fa, o meglio, si dovrebbe fare, sui “dettagli” concreti sia sul fronte della mitigazione, che su quello dell’adattamento.
È finito il tempo dei proclami come quello dello “storico” Accordo di Parigi del 2015, o delle indicazioni generiche sulla necessità di adattamento al clima.
Oggi si deve entrare nel concreto, dunque nello specifico dei problemi.
La decarbonizzazione del trasporto richiede il passaggio alla mobilità elettrica, quella della manifattura un intervento draconiano sui settori “hard to abate”, per non parlare dell’edilizia e dell’agricoltura.
Il tutto in un contesto futuro nel quale si prevede un aumento dei consumi energetici dovuto al miglioramento delle condizioni di vita delle persone più povere, a un incremento delle necessità dei ceti medi emergenti e dall’aumento di popolazione al 2050, con le previsioni delle Nazioni Unite che vedono a quella data 10 miliardi di esseri umani sul Pianeta.
Oggi, quindi si è entrati in una nuova fase. Quella nella quale per decarbonizzare si deve incidere sugli stili di vita, sui metodi di produzione e sulle modalità di consumi. Tutti aspetti che cambieranno drasticamente il modello d’accumulo del valore da parte di pochi e quindi sulla estrema iniquità e polarizzazione della distribuzione della ricchezza.
Tutti i problemi, ora, sono venuti al pettine: tutto ciò non è realizzabile con una transizione energetica-ambientale, per così dire “indolore” per chi ha accumulato enormi ricchezze – e vorrebbe continuare a farlo – , per il semplice fatto che l’idea di sviluppo illimitato resta in contrasto con le leggi della fisica.
Una consapevolezza che i decisori politici ed economici internazionali non hanno avuto dopo l’Accordo di Parigi, visto il “rallentamento” dei già blandi meccanismi dell’accordo stesso.
Il rifiuto delle energie rinnovabili… socialmente indotto
Ora si sta manifestando un’altra linea di azione: favorire il rigetto delle istanze green da parte dei corpi sociali.
Non è casuale, infatti, che arrivi per così “dal basso”, almeno a prima vista, il rifiuto dell’elettrificazione della mobilità, dell’efficientamento delle abitazioni e l’introduzione del nuovo nucleare “ridotto” degli SMR, che serve a mantenere il modello energetico centralizzato messo in crisi da quello distribuito conseguenza dell’adozione delle fonti rinnovabili.
In realtà appena s’indaga un po’ ci si accorge che dietro a questi fenomeni ci sono le grandi compagnie energetiche. Eni, per esempio, da anni investe su ricerche a lunghissimo termine, come biocarburanti e nucleare a fusione, che spesso vengono comunicati come se fossero pronti a livello commerciale.
Stesso discorso per il nucleare SMR o quello convenzionale, che si vuole far passare come la soluzione
Il caso Vanguard e le leggi anti-ESG in Texas
Tutto ciò crea un tessuto sociale ostile alla conversione energetica rinnovabile.
Il fondo Vanguard, uno dei principali gestori di fondi che gestisce 9,3 trilioni di dollari in asset a livello mondiale, di recente ha annunciato il ritiro dalla Net Zero Asset Managers Initiative (NZAM), cioè da un gruppo di investitori impegnati a raggiungere emissioni nette zero entro il 2050.
E un altro segnale è quello che ci arriva dallo Stato del Texas che ha adottato una serie di misure per limitare gli investimenti nei fondi che promuovono politiche ambientali, sociali e di governance (ESG).
A fine 2021, infatti, è arrivata una legge, la Senate Bill 13 (SB 13), che crea una vera e propria lista di proscrizione delle società finanziarie. E tra le maglie di questa disposizione sono finiti giganti come BlackRock, Credit Suisse e UBS, considerate quindi non idonei per gli investimenti da parte del Texas, a causa delle loro politiche in favore degli ESG.
Nel giro di pochi mesi il Texas State Board of Education ha disinvestito 8,5 miliardi di dollari da BlackRock. Un segnale piccolo ma significativo che la politica delle destre e i gruppi fossili hanno immediatamente “amplificato” creando ulteriore sfiducia verso questo tipo d’investimento green.