Un recente articolo su The Guardian e il documentario “Apocalypse Cow” del giornalista britannico George Monbiot – incentrati sulla ventilata scomparsa di quasi tutti gli allevamenti a favore di carni e altri alimenti prodotti in laboratorio – ha innescato un acceso dibattito.
Al centro della discussione c’è il ruolo che le nuove tecnologie alimentari potranno svolgere nel cambiare alla radice metodi produttivi millenari e ridurre l’impatto climatico/ambientale di allevamenti e colture.
Cerchiamo di fare un punto della situazione ad oggi, consapevoli che stiamo parlando di questioni già complesse di per sé, come energia, clima, agricoltura, suolo, eco-servizi della natura, di cui è praticamente impossibile prevedere nel dettaglio le reciproche interazioni, causazioni e conseguenze inattese.
Partiamo da pochi dati, abbastanza condivisi.
Il consumo abbondante di carne proveniente da allevamenti intensivi e industriali è sempre più al centro dell’attenzione come un problema serio, soprattutto per i suoi effetti sul clima e l’ambiente.
Secondo la Food and Agricolture Organization delle Nazioni Unite (FAO), il settore zootecnico è responsabile del 14,5% delle emissioni totali di gas serra.
Allargando il campo a tutte le emissioni “AFOLU” (Agricolture, Forestry and Land Use) cioè legate ad agricoltura, foreste e usi della terra, che comprendono il grosso delle emissioni della filiera agro-alimentare, il settore incide per il 24% delle emissioni nocive complessive a livello mondiale, secondo lo IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organizzazione intergovernativa a carattere scientifico più accreditata al mondo e considerata istituzione di riferimento negli studi sui cambiamenti climatici.
Tornando alle stime della FAO, un terzo circa delle terre coltivate nel mondo viene utilizzato per produrre un miliardo di tonnellate di foraggio – soprattutto soia e mais – necessario per nutrire gli animali da allevamento. E il 23% dell’acqua dolce disponibile a livello mondiale è utilizzata per l’allevamento di bestiame.
Per soppesare più facilmente l’incidenza della zootecnia su clima e ambiente basti dire che, secondo una ricerca dello Adam Smith Institute – un centro studi britannico che promuove l’economia di mercato e non un bastione dell’ambientalismo estremo – “se 19 persone possono essere nutrite con un solo ettaro di riso, solo una persona può essere nutrita con un ettaro dedicato al bestiame.”
È facile immaginare come la prospettiva di carni coltivate in laboratorio, farine ricavate dalla cosiddetta “fermentazione di precisione” di microrganismi e altri prodotti ottenuti da colture in vitro, alimentate il più possibile da energie rinnovabili, aprano orizzonti potenzialmente immensi.
Gli alimenti coltivati in laboratorio potrebbero essere una delle soluzioni di punta per soddisfare contemporaneamente sia la crescente domanda di prodotti alimentari nel sud del mondo che l’impellente bisogno di ridurre le emissioni nocive nel nord del mondo.
Secondo uno studio del 2012, che esplorava il potenziale della carne coltivata in laboratorio per ridurre l’impatto ambientale della zootecnia in Europa, “se tutta la carne prodotta nell’UE-27 fosse sostituita da carne in coltura, le emissioni di gas serra, l’uso del suolo e l’uso dell’acqua sarebbero ridotti di due ordini di grandezza rispetto alle attuali pratiche di produzione della carne.”
In parole più semplici, sarebbe come se le quantità di emissioni, suolo e acqua necessarie per la produzione della stessa quantità di carne passassero genericamente da valori di 100.000 a valori di 1.000 l’anno.
La carne coltivata, dopotutto, è un prodotto ottenuto dalla raccolta di cellule muscolari animali che vengono poi messe in un bioreattore e alimentate con proteine per aiutare la crescita dei tessuti, con processi meno energivori e impattanti rispetto agli allevamenti tradizionali.
Nel 2019, in una risposta a un’interrogazione parlamentare sulla carne coltivata, l’allora Commissario Europeo per la Salute Vytenis Andriukaitis ha detto che “su richiesta della Commissione, un rapporto di esperti indipendenti del 2018 ha identificato lo sviluppo di nuove alternative alla carne come un importante percorso per realizzare l’Iniziativa Alimentare 2030 della Commissione, per promuovere un sistema alimentare intelligente dal punto di vista climatico e sostenibile per un’Europa sana”.
Chris Bryant, Direttore per le Scienze Sociali presso la Cellular Agriculture Society, un’organizzazione senza scopi di lucro che mira ad accelerare la commercializzazione dei prodotti ottenuti attraverso l’agricoltura cellulare, compresa la carne coltivata, e ricercatore presso l’Università di Bath, nel Regno Unito, si è detto fiducioso che la carne coltivata “decollerà in questo decennio“, dichiarando a EURACTIV che “le recenti scoperte significano che la carne coltivata potrebbe essere sul mercato in Europa già nel 2022“.
Sempre secondo lo Adam Smith Institute, la carne coltivata in laboratorio potrebbe significare una riduzione delle emissioni di gas serra in agricoltura del 78-96%, utilizzando il 99% di terreno in meno, con il prezzo per un hamburger coltivato che negli ultimi cinque anni è sceso da 250.000 a 10,50 dollari.
È tutto quindi già scritto? Non proprio. Anche la carne e gli altri prodotti alimentari da laboratorio potrebbero infatti avere effetti collaterali, controindicazioni e conseguenze inattese.
L’agricoltura tradizionalmente intesa svolge un ruolo importante nella cura del suolo e nella stabilizzazione del territorio. Meno agricoltura tradizionale potrebbe comportare anche una minore cura di territori, soprattutto in Italia, spesso devastati dal dissesto idro-geologico.
Le aziende agricole sono spesso anche l’ultimo presidio economico delle zone rurali, già interessate da un vasto spopolamento, che potrebbe peggiorare ulteriormente se si cominciassero a coltivare artificialmente su vasta scala carne e altri prodotti vicino ai luoghi di consumo, con ulteriori pressioni demografiche sulle zone urbane.
Sarebbe necessario che governi e classi dirigenti attuassero programmi efficaci e lungimiranti per favorire il reimpiego degli addetti all’agricoltura, e gestire meglio lo strapotere che presumibilmente i nuovi giganti tecnologici del settore acquisirebbero, cose su cui è legittimo essere scettici, visto come molti colletti bianchi e colletti blu spiazzati dalla globalizzazione sono stati lasciati al loro destino in molte zone del mondo.
Non è una cosa impossibile gestire queste transizioni, spesso inevitabili nel corso della storia, ma bisognerà essere molto più proattivi che in passato.
Rimangono dubbi, inoltre, sulla capacità dei prodotti di laboratorio di incorporare tutti i micronutrienti presenti in natura e importanti per la salute.
Le radici delle piante, per esempio, estraggono i minerali giusti nelle giuste proporzioni dall’ambiente, utilizzando l’energia solare per alimentare il giusto mix nutritivo a costo zero, senza generare calore o inquinamento chimico e non richiedendo acqua purificata.
Molte forniture di minerali e altre sostanze per “l’allevamento” di batteri e microrganismi – i “mattoni” con cui si costruiscono la carne coltivata e altri prodotti – dovrebbero invece essere assemblate chimicamente.
Se da una parte si riducono le emissioni e l’impatto ambientale dell’agricoltura, dall’altra si rischia insomma di aumentare le emissioni e l’impatto dell’industria chimica.
Prima di puntare tutto sull’agricoltura da laboratorio a scapito di quella tradizionale, magari condotta in maniera rigenerativa del terreno, bisogna avere una ragionevole certezza che l’effetto sia quello di una riduzione netta delle emissioni e degli impatti ambientali.
Pur con tutte le precauzioni del caso, vale comunque la pena esplorare questo nuovo spazio e prepararsi al meglio per cercare di realizzare le potenzialità delle nuove tecnologie alimentari.