La tecnologia per catturare le emissioni di CO2 e utilizzarle o stoccarle nel sottosuolo (cosiddetta CCUS, Carbon Capture Utilization and Storage) è uno strumento “importante” per raggiungere gli obiettivi climatici al 2050.
Ma non bisogna sopravvalutare il suo ruolo: la via prioritaria per decarbonizzare le economie mondiali è tagliare direttamente le emissioni di anidride carbonica, riducendo la produzione e l’uso di combustibili fossili e investendo di più in energie rinnovabili.
È sempre l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) a dire entrambe le cose, evidenziando così sia le opportunità sia i rischi di una soluzione controversa.
Nel nuovo rapporto dedicato alla CCUS, uscito ieri, lunedì 27 novembre, la Iea si focalizza sulle misure e sulle politiche che possono favorire progetti e investimenti nel settore, rimuovendo le tante barriere (tecniche, finanziarie, normative) che finora hanno scoraggiato le aziende e i governi.
Da notare però quanto afferma l’Agenzia nel rapporto, pubblicato nei giorni scorsi, sui possibili ruoli delle industrie oil&gas nella transizione energetica.
Scrive testualmente la Iea: “La cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio della CO2 rappresentano una tecnologia essenziale per raggiungere emissioni nette pari a zero in determinati settori e circostanze, ma non è un modo per mantenere lo status quo”.
Difatti, se il consumo di petrolio e gas dovesse evolversi come previsto dalle attuali politiche, “richiederebbe l’inconcepibile cattura di 32 miliardi di tonnellate di CO2 per l’utilizzo o lo stoccaggio entro il 2050, di cui 23 miliardi di tonnellate tramite la cattura diretta dall’aria, per limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C” (qui si sta parlando non solo di CCUS ma anche di altre soluzioni come la Direct Air Capture).
In altre parole, la cattura della CO2 non deve diventare una scusa per continuare a estrarre nuovo gas e nuovo petrolio e consentire alle multinazionali del fossile di mantenere le loro attività tradizionali.
Ciò detto, la Iea evidenzia che ci sono oltre 400 nuovi progetti di cattura, utilizzo e stoccaggio dell’anidride carbonica annunciati a livello globale negli ultimi tre anni, in più di 45 Paesi.
Le politiche esistenti per la CCUS, si spiega, comunemente mirate a ridurre i costi degli impianti, hanno contribuito a mettere in funzione i primi progetti, ma hanno anche sbilanciato lo sviluppo del settore verso applicazioni a basso costo.
I governi di tutto il mondo stanno ora adottando approcci politici diversi, traendo lezioni da altri settori del sistema energetico per applicare nuovi modelli di business.
La sfida è creare un modello commerciale per la CCUS rendendo questa tecnologia più matura, competitiva e in grado di sostenersi dal punto di vista economico. Ciò può essere fatto con diversi strumenti, tra cui prestiti agevolati e crediti d’imposta per promuovere gli investimenti iniziali, meccanismi di carbon pricing (mercati della CO2, tasse sulla CO2 e altro ancora, si veda lo schema sotto, tratto dal rapporto della Iea).
Ciò allo scopo di focalizzare i progetti sullo stoccaggio “dedicato” della CO2.
Finora, invece, la tecnologia per la cattura della CO2 è stata usata soprattutto per facilitare le estrazioni petrolifere, nell’ambito delle tecniche cosiddette EOR (Enhanced Oil Recovery) quindi con un impatto ambientale complessivo particolarmente negativo (si veda Ccs: da 50 anni al servizio delle fossili, ma per il clima tutto fumo e niente arrosto).
Secondo la Iea poi l’innovazione nei progetti CCUS è necessaria con urgenza: circa tre quarti della capacità di cattura entro il 2050 prevista nella Net Zero Roadmap, infatti, si basa su tecnologie e applicazioni che sono ancora su scala dimostrativa o prototipale.
Dal grafico sotto si vede che la capacità degli impianti CCUS attuali e pianificati è ancora ben lontana da quanto richiesto al 2030 dallo scenario Net Zero Emissions (NZE), per arrivare ad azzerare le emissioni nette di CO2 entro metà secolo.
C’è anche la necessità, conclude la Iea, di ridurre il consumo energetico e i costi per le applicazioni CCUS, oltre a velocizzare molto i tempi per autorizzare e realizzare i progetti (oggi molto lunghi: in media circa 6 anni).
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