Auto e biocarburanti, l’Italia sostiene una pessima soluzione

Nei negoziati Ue sulle emissioni auto, il governo Meloni si batte per i biofuel: salverebbero il motore a scoppio, ma hanno impatti disastrosi per deforestazione e clima.

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In Europa due nazioni spingono per salvare l’industria del motore a scoppio dalla sua quasi estinzione, annunciata dalla fine della vendita di nuove auto con quella propulsione a partire dal 2035.

La prima è la Germania, che punta ad alimentare i motori a scoppio del futuro con gli e-fuel, i carburanti di sintesi, ottenuti combinando CO2, possibilmente estratta dall’aria, con idrogeno ottenuto tramite elettrolisi dell’acqua con energia rinnovabile: il risultato sono idrocarburi addirittura migliori di quelli da petrolio, perché più puri, che non emettono CO2 fossile.

Gli e-fuel, però, sono causa di enormi sprechi di energia sia nelle fasi della loro produzione, che nel loro uso, quando vengono bruciati in motori notoriamente inefficienti come quelli a scoppio: secondo Transport & Environment, mentre un motore elettrico usa il 72% dell’elettricità iniziale per muovere il mezzo, un e-fuel usato in un motore a scoppio finisce per usarne solo il 13% .

In altre parole, se volessimo alimentare auto convenzionali con gli e-fuel, invece di sostituirle con elettriche, bisognerebbe sestuplicare gli impianti a rinnovabili dedicati ai trasporti su strada.

Probabilmente la Germania li ha proposti, convincendo l’UE, solo pensando ai suoi numerosi produttori di auto di lusso, i cui clienti non solo non badano a spese quanto a costo del carburante, ma non rinunceranno tanto facilmente in futuro al “brum brum” dei loro potenti motori: non a caso la prima fabbrica di e-fuel, l’ha aperta in Cile Porsche.

L’altra grande nazione europea che lotta per tenere in vita il motore a scoppio in Europa è l’Italia, che, forse anche per la non eccelsa competenza tecnologica dei ministri del suo governo, ha proposto un’altra, molto meno innovativa alternativa a benzina e gasolio: i biocarburanti.

Che non sia un rimedio molto hi-tech, lo suggerisce il fatto che le prime auto con motore a scoppio nel XIX secolo, usavano già un biocarburante: l’alcol etilico ottenuto dalla fermentazione di piante zuccherine.

Oggi quei combustibili “verdi” vengono prodotti dall’esterificazione di oli vegetali, come quelli di colza o palma, per realizzare sostituiti del diesel, o dalla fermentazione di zuccheri, cellulosa o amidi, per ottenere, appunto, alcool in grado di sostituire la benzina.

In teoria l’idea sembrerebbe buona: tanta CO2 assorbe la pianta, tanta ne reimmette il biocarburante in aria. E infatti, da decenni, i paesi europei, gli Usa e il Brasile aggiungono in percentuali più o meno ai derivati dal petrolio biocarburanti per renderli “più sostenibili” (anche nel senso che così sostengono i loro agricoltori, fornendogli una destinazione alternativa al surplus dei loro prodotti),

In pratica però la maggior parte dei biocarburanti, hanno constato molti studi in passato, sono tutt’altro che a emissioni zero, perché coltivare richiede arature, fertilizzanti, pesticidi e lavorazioni industriali, spesso alimentate con energia fossile, che riducono il beneficio climatico dei biocarburanti: i peggiori fra questi sono quelli prodotti da materie prime coltivate in paesi temperati, dove la produttività agricola è più bassa che ai tropici, esempio classico l’alcol ricavato dal mais negli Usa, che alla fine “contiene” più CO2 fossile di quanta ne emetterebbe la benzina che sostituisce.

Ma, ha rivelato ora su Nature Climate Change il fisico dei sistemi complessi Leon Merfort, del Potsdam Institute for Climate Impact Research un uso massiccio dei biocarburanti, li renderebbe dei veri distruttori di ambiente e clima terrestri, a causa del cambio di uso dei suoli che ciò comporterebbe.

“Abbiamo creato diversi scenari computerizzati, unendo vari obbiettivi di riduzione delle emissioni di CO2, con varie possibili soluzioni alternative per alimentare per i trasporti nel 2050: dal tutto combustibili fossili, al tutto elettrico fino al tutto biocarburanti”, spiega Monfort .

“Il risultato è che, se si perseguisse l’obbiettivo dell’accordo di Parigi di mantenere le temperature sotto i +1,5°C rispetto al 1850, usando per i trasporti i biocarburanti al posto di quelli fossili, le emissioni sarebbero addirittura più alte che usando derivati del petrolio”.

La ragione è molto semplice: per produrre biocarburanti nell’enorme quantità richiesta da un loro uso esclusivo per i trasporti, serve una parallela, enorme occupazione di terreno coltivabile: per capire di quanto spazio in più stiamo parlando, basta considerare che oggi il mondo usa circa 1,4 miliardi di tonnellate l’anno di gasolio, mentre di olio di palma, il più diffuso olio vegetale, se ne producono solo 73 milioni di tonnellate ogni anno. Per pareggiare il gasolio, bisognerebbe moltiplicare per 20 le coltivazioni di palma da olio.

“Lasciando le cose al mercato, visto che coltivare piante per biocarburanti sarebbe molto redditizio, molti terreni agricoli verrebbero destinati ai biocarburanti, invece che al cibo, e, per non far morire la gente di fame, non resterebbe quindi altro da fare che trasformare le foreste in nuovi campi“, dice il fisico tedesco.

E anche vietando di coltivare i biocarburanti dove oggi si coltivano alimenti, si otterrebbe poco.

“Allora le foreste verrebbero direttamente distrutte per coltivare le materie prime per i biocarburanti: è quello che è già successo in Asia per l’olio di palma”, spiega Monfort.

Distruggere le foreste, specialmente quelle tropicali, vuol dire non solo creare un danno ambientale spaventoso, ma anche liberare, a causa della combustione e decomposizione del loro legno e suolo, tali quantità di CO2 e metano, da far schizzare l’importa carbonica dei biocarburanti oltre quella del petrolio.

“Quel modo di alimentare i trasporti, per avere senso, richiederebbe una protezione totale delle foreste mondiali, visto che, secondo i nostri modelli, anche se se ne usasse a questo scopo solo il 10%, l’impatto su ambiente e clima sarebbe insostenibile. O, in alternativa al divieto, si dovrebbe imporre una pesante tassa sul carbonio dei biocarburanti ricavati da suolo forestale, per scoraggiarne l’uso”, conclude Monfort.

Ammesso che queste soluzioni siano attuabili su una scala globale, se applicate obbligherebbero a ricavare i biocarburanti solo da terreni marginali e poco produttivi, rendendoli allora non abbastanza economici da sostituire quelli fossili, e tantomeno in grado di competere con la propulsione elettrica.

Insomma, i biocarburanti, oltre a far contenti i ricchi possessori delle future Ferrari o Lamborghini, potrebbero servire forse per alimentare settori particolari dei trasporti, in primis quelli dove è difficile applicare la propulsione elettrica, come l’aviazione.

Ma lì dovranno competere con gli e-fuel, che oggi sono costosissimi, ma un domani, essendo un prodotto industriale, sicuramente andranno incontro a un crollo del loro prezzo.

In definitiva, sembra proprio che puntare, come verrebbe il governo italiano, sui biocarburanti come mezzo di decarbonizzazione, sia come scommettere su un cavallo che quasi certamente arriverà ultimo al traguardo, ammesso gli sia consentito di entrare in pista.

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