A qualcuno piace confondere: l’attacco alla scienza del clima su Limes

Quando l’autorevolezza si scontra con il pregiudizio: un editoriale provocatorio che confonde, sminuisce e ignora la scienza del clima. Perché le parole del direttore di Limes sono pericolose secondo il professor Federico Butera.

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A qualcuno piace caldo” è l’accattivante titolo dell’ultimo numero della autorevole rivista Limes, dedicato al cambiamento climatico.

E questo qualcuno sembra essere proprio l’autore dell’editoriale, che stupisce, data la sua grande professionalità, e preoccupa per le dannose conseguenze che può indurre, data la sua autorevolezza.

Stupisce perché argomenta e suggerisce soluzioni basandosi su ben strani preconcetti.

Un preconcetto è subito dichiarato nell’incipit dell’editoriale: «Il cambiamento climatico è tema troppo serio per lasciarlo ai climatologi».

Non è solo una boutade, purtroppo, è solo l’inizio di una spesso velenosa demolizione della scienza del clima e degli scienziati che la rappresentano. Infatti, prosegue dicendo che «le accalorate dispute sul riscaldamento dell’atmosfera sono aperte e chiuse da chi si intesta il consenso climatologico con sentenza intesa cassazione: ‘lo dice la scienza’».

Vengono i brividi. Per l’autore gli scienziati sono «sacerdoti della climatologia… invasati da ideologia climatista vestita da scienza del clima». La scienza del clima sarebbe dunque una religione.

Se la prende, con accanimento, con i modelli di simulazione usati per prevedere le possibili conseguenze del riscaldamento globale negli anni che verranno, dimostrando di non avere la minima idea di cosa questi modelli siano.

Non sa, forse, che sono soggetti ad attente verifiche di affidabilità, e che i modelli dei sistemi complessi quale è il pianeta Terra, fatto di rocce, acqua, ecosistemi, uomini con le loro tecnologie, il loro sistema economico e il loro impatto, il tutto interconnesso da relazioni non lineari, hanno come risultati probabilità che un evento si verifichi, mai la certezza.

Non a caso nei rapporti dell’IPCC, il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, ogni affermazione è accompagnata dal suo grado di certezza. Questa è scienza, non vaticinio.

E grazie a questi modelli, contrariamente a quanto lui afferma, si hanno informazioni su ciò che ci si può aspettare, e contro cui ci si può preparare, anche per aree territoriali abbastanza ristrette, non solo per un vago mondo medio che non esiste, come ironizza.

Ma andiamo avanti nell’editoriale, sempre venato da pesante irrisione per la scienza del clima.

Dice che «qualcosa non funziona nell’abracadabra ultima chiamata per la Terra/salvezza via neutralità carbonica» e aggiunge: «non pretendiamo qui di stabilire correttezza di diagnosi – quindi imminenza del giudizio universale – e relativa terapia decarbonizzante».

Cioè, l’autore non entra nel merito della giustezza di quanto la scienza ha svelato sul riscaldamento globale e le sue conseguenze, ma dice che è abracadabra, cioè magia. Gli scienziati sono sacerdoti e al tempo stesso maghi.

Perché tanto accanimento sugli scienziati del clima? La risposta è che loro dicono che dobbiamo azzerare le emissioni di gas serra per evitare che si finisca male.

Secondo l’autore dell’editoriale gli scienziati sbagliano, perché, pur ammesso (e non concesso) che effettivamente si vada verso la catastrofe climatica, «se stiamo tutti rischiando la vita, la cura anti-CO2 non ci salverà. Perché non funziona».

Non funziona, dice, perché le varie COP hanno dimostrato che i vari paesi in cui è suddivisa l’umanità non riescono a mettersi d’accordo: al più si impegnano a parole ma poi non fanno niente.

Tutto ciò, aggiunge, «ostacola l’impegno verso l’ecoadattamento. Una terapia in cui la priorità è data non alle cause ma al contrasto degli effetti devastanti su ambiente e salute di temperature imbizzarrite».

Quella dell’ecoadattamento sarebbe l’unica strada che ci resta da percorrere perché a causa della «inefficacia dell’approccio corrente… la battaglia per la decarbonizzazione è persa».

E qual è la causa di questo approccio perdente? L’autore dell’editoriale la prende da lontano e dice che «i disastri ecologici sono figli del cristianesimo latino, matrice dell’occidente. A questa pervasiva radice dobbiamo idee e prassi della separazione tra uomo e natura. La Bibbia stabilisce che uso e abuso umano delle risorse naturali a proprio beneficio derivano dal mandato divino… Dio ci vuole dominatori del creato».

Da ciò consegue che «se vogliamo cambiare il nostro modo di trattare l’ambiente dobbiamo cambiare il nostro modo di pensarlo. Cambiare religione». Quindi, conclude l’editoriale, «in sintesi, il problema ecologico è religioso. Occorre un equivalente cristiano e occidentale dell’animismo».

Provando a tirare le fila del ragionamento, da una parte c’è la religione scienza, con gli scienziati/sacerdoti/maghi, dall’altra il cristianesimo. La religione-scienza, ci ha spiegato, è inaffidabile e la religione cristiana è letale per l’ambiente.

Siamo proprio nei guai, il cambiamento climatico è nelle mani di credenze religiose e quindi non possiamo fare altro che accettarlo con fatale rassegnazione e cercare di difenderci il meglio possibile dalle sue conseguenze.

Conclusione drammaticamente inevitabile se fra le cause del cambiamento climatico l’editoriale non lasciasse nell’oscurità quelle più vicine, più palpabili ed eventualmente controllabili della crisi ambientale.

Da esperto di geopolitica quale è, l’autore potrebbe spiegarci che le scelte politiche dei vari stati sono interamente governate da strapotenti multinazionali, quella del fossile la più ovvia, ma non solo.

Potrebbe anche spiegarci che il modello economico attuale, fondato sulla crescita senza limiti in un mercato asservito al potere dei più forti, alla globalizzazione e alla finanza si potrebbe mettere in discussione.

Potrebbe spiegarci, insomma, che, se è vero che mettere d’accordo le superpotenze su un progetto comune è difficile, la soluzione non è rinunciarci e spendere tutte le nostre risorse per ridurre il danno, la terapia sintomatica, invece di quella eziologica.

Invece, il messaggio che resta avendo letto l’articolo è che – a causa della attuale realtà geopolitica data come immutabile – le emissioni non potranno che aumentare e che quindi dobbiamo tenerci le fonti fossili, magari unite alla Cattura e Stoccaggio della CO2 sottoterra, le ancora inesistenti centrali nucleari di nuova generazione, il consumismo sfrenato perché aiuta l’economia, la crescita senza limiti, l’agricoltura industriale che danneggia gli ecosistemi.

E poi, si salvi chi può. Si adatti chi può. Si salvi, si adatti, se può, proprio quel «grande sud» di cui, nello stesso articolo, l’autore mostra di preoccuparsi. E se ne facciano una ragione le nuove generazioni, incolpevoli come il grande sud.

Non è un bel messaggio, specie se viene da una fonte autorevole e stimata.

Nel mondo scientifico, quando un articolo pubblicato si rivela non corretto, è prassi ritirarlo. Si potrebbe estendere questa prassi e creare un nobile precedente.

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