Il boom delle rinnovabili negli ultimi anni ha smascherato un falso mito: quello che la produzione elettrica “baseload” delle fonti fossili e del nucleare sia indispensabile per coprire i vuoti lasciati dall’eolico e dal fotovoltaico quando mancano sole e vento.
Questa è una delle principali considerazioni che troviamo nel nuovo rapporto di REN21, Renewables 2017 Global Status Report (in allegato in basso), compendio di tutto ciò che è successo nel campo delle tecnologie pulite nel 2016 con alcune riflessioni sull’andamento della transizione energetica globale.
Lo studio fa notare che in Danimarca e Germania, ad esempio, si sono raggiunti picchi di generazione elettrica rinnovabile del 140% e 86% rispettivamente, che i due paesi sono riusciti ad assorbire senza mandare in tilt le reti, dimostrando così che è possibile integrare un numero crescente di parchi eolici e solari puntando alla massima flessibilità del sistema elettrico.
Il tema ci riporta alla domanda: quale percentuale di energia intermittente è in grado di sopportare la rete preservando la sicurezza e stabilità delle forniture?
La risposta è “dipende”, perché entrano in gioco numerosi fattori.
Secondo REN21, le utility dovrebbero investire molto di più in soluzioni che permettono di gestire con intelligenza – cioè in tempo reale, evitando congestioni e sprechi – i carichi di rete. Un esempio interessante su questo punto riguarda i test condotti in California su un impianto FV da 300 MW (vedi QualEnergia.it).
Le sperimentazioni hanno rivelato che il tallone d’Achille delle rinnovabili, la loro non-programmabilità, può diventare una risorsa grazie a speciali software di controllo e smart inverter, con cui modulare l’output effettivo di centinaia di moduli fotovoltaici e partecipare perfino alla fornitura di determinati servizi di rete, come la regolazione di frequenza e voltaggio.
Un altro mito sfatato dai numeri, si legge nel documento, è che le rinnovabili sono troppo costose e quindi riservate alle nazioni occidentali più industrializzate.
La maggior parte della nuova potenza verde, invece, è installata nei paesi emergenti e soprattutto in Cina. Anche l’India sta espandendo la sua green economy a livelli mai visti prima, tanto da superare gli Stati Uniti al secondo posto della classifica internazionale di EY sugli investimenti in fonti pulite.
Inoltre, sono sempre di più le aree del pianeta in cui è più conveniente costruire parchi eolici e solari che impianti convenzionali, perché i costi di generazione delle rinnovabili sono diminuiti moltissimo, come confermano i prezzi spuntati in diverse aste (articolo di QualEnergia.it sulle misure per favorire la competitività del fotovoltaico).
Tuttavia, il passaggio dai combustibili fossili alle risorse energetiche green sta procedendo con troppa lentezza, soprattutto in due settori, trasporti e riscaldamento/raffrescamento degli edifici.
Il grafico sotto riassume perfettamente il quadro: nel 2015, la quota delle fonti fossili nei consumi finali complessivi di energia era pari al 78%, con le rinnovabili al 19% circa, di cui però una buona fetta rientrava nel settore delle biomasse tradizionali.
A fronte di alcuni segnali positivi, come l’incremento di capacità verde (+161 nuovi GW nel 2016), i costi in discesa di molte tecnologie (eolico, solare FV, batterie al litio), l’economia mondiale che continua a crescere senza far aumentare di pari passo le emissioni di CO2 legate all’energia, ci sono altre tendenze che remano nella direzione contraria.
Ecco perché la IEA (International Energy Agency) ha appena proposto uno scenario avanzato per spingere al limite massimo la diffusione di tutte le tecnologie pulite conosciute, tra quelle in commercio e quelle in stato avanzato di ricerca e sviluppo.
Il problema è che le attuali politiche sono inefficaci per centrare l’obiettivo dei 2 gradi stabilito dagli accordi di Parigi (articolo di QualEnergia.it sui limiti delle misure esistenti per decarbonizzare l’economia).
Troviamo la medesima conclusione nelle pagine di REN21: la transizione energetica non sta avanzando con la velocità che le dovrebbe competere, frenata anche dalla persistenza di troppi sussidi ai combustibili fossili, nell’ordine di 4:1 nei confronti delle rinnovabili.
Sono pochissimi, evidenzia poi REN21, i paesi che hanno incluso i carburanti verdi per i trasporti nei rispettivi piani di contribuzione agli impegni di Parigi (NDC, Nationally Determined Contributions).
Tornando alla non-necessità di potenza baseload per sostenere le rinnovabili, va ricordato che in Germania il 40% circa della produzione elettrica proviene tuttora da carbone e lignite, mostrando così quanto sia faticoso e complesso abbandonare un vecchio sistema energetico per sostituirlo del tutto con uno nuovo.
Per farlo, osserva lo studio, è necessario dirottare gli investimenti verso le tecnologie che consentono di accogliere più rinnovabili nelle reti e gestire la variabilità produttiva: sistemi di accumulo, generazione distribuita, colonnine di ricarica intelligenti (per rifornire le batterie delle vetture sfruttando unicamente l’elettricità a zero emissioni), linee di trasmissione interconnesse tra singoli stati.
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