L’Europa alla guida della transizione energetica della decarbonizzazione

Il contributo di Gianni Silvestrini al volume curato da di Silvia Zamboni dal titolo “Un’altra Europa” (Edizioni Ambiente). Il libro raccoglie diverse voci autorevoli sul tema del futuro dell'Europa e su come rilanciare l’obiettivo di un’Europa diversa, più impegnata nella lotta ai cambiamenti climatici e per la promozione delle rinnovabili e dell’efficienza energetica e più vicina ai cittadini.

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Il contributo di Gianni Silvestrini al volume curato da di Silvia Zamboni dal titolo “Un’altra Europa. Sostenibile, democratica, paritaria, solidale(Edizioni Ambiente). Il libro raccoglie diverse voci autorevoli sul tema del futuro dell’Europa e su come rilanciare l’obiettivo di un’Europa diversa, più impegnata nella lotta ai cambiamenti climatici e per la promozione delle rinnovabili e delll’efficienza energetica e più vicina ai cittadini.

Questo è il secolo della decarbonizzazione, del crollo del dominio dei combustibili fossili e del ritorno a quelle fonti rinnovabili che hanno accompagnato l’umanità fino alla rivoluzione industriale.

Un primo scossone agli equilibri energetici si era registrato dopo le crisi petrolifere degli anni Settanta, con l’embargo sulle esportazioni di greggio arabo e le code ai distributori di benzina. Nel 1977 il presidente Jimmy Carter arrivò a dichiarare che per ridurre la dipendenza dal petrolio era necessario “l’equivalente morale di una guerra”. Furono lanciati programmi di ricerca, la “solita” California ottenne dei risultati interessanti sulle rinnovabili, ma bastò l’arrivo di Reagan e, soprattutto, il crollo del prezzo del petrolio nel 1986, per fare insabbiare i tentativi di cambiamento.

E’ stata un’altra la vera molla che ha avviato la trasformazione del sistema energetico: c’entrano sempre i combustibili fossili, ma non a causa delle pur crescenti difficoltà di estrazione, bensì delle ricadute, per il pianeta, derivanti dal loro impiego. Sul banco degli accusati è finito, infatti, l’aumento annuo di 1-2 parti per milione della concentrazione di CO2 nell’atmosfera. Una crescita inesorabile, destinata ad incidere sui delicati equilibri climatici. Da frenare, pena il rischio concreto di conseguenze irreversibili. Quando, alla fine degli anni Ottanta, la questione del riscaldamento del pianeta è uscita dall’ambito esclusivo delle analisi degli scienziati e delle preoccupazioni degli ambientalisti per imporsi sulla scena politica e presso l’opinione pubblica mondiale, si è tracciata la direzione che avrebbe preso il futuro dei combustibili fossili.

La leadership europea nella transizione energetica

La transizione energetica verso un’economia decarbonizzata ha visto una protagonista indiscutibile: la “vecchia” Europa. Qualche dato evidenzia con chiarezza il cambio di passo che si è registrato a cavallo della metà del decennio scorso, in coincidenza con l’avvio del Protocollo di Kyoto che ha imposto obiettivi vincolanti sulle emissioni climalteranti: le rinnovabili, che al 2005 coprivano l’8,5% dei consumi finali, nel 2012 sono passate al 14,4%, con la previsione di superare agevolmente l’obiettivo dell’Unione europea del 20% al 2020.

La crescita è stata particolarmente incisiva nel settore elettrico: gli impianti alimentati da fonti di energia rinnovabili hanno infatti rappresentato il 55% della nuova potenza installata in Europa tra il 2000 e il 2013. E lo scorso anno tale quota è salita al 72%. Questo trend, se mantenuto, consentirebbe di raggiungere, nel 2030, il 30% dei consumi finali coperti da fonti rinnovabili.

E proprio intorno all’obiettivo da fissare per la fine del prossimo decennio, nel primo trimestre 2014 si è assistito ad un braccio di ferro tra diversi protagonisti dello scenario istituzionale europeo, un’impasse, questa, che nulla toglie però alla radicalità della transizione avviata nel vecchio continente. Scendendo nel dettaglio di questa contesa, mentre la Commissione ha proposto per le rinnovabili una quota del 27%, il Parlamento Europeo si è espresso favore del 30%.

Oltre ad avere importanti implicazioni interne, questa decisione influenzerà le scelte di altri paesi, come è successo in passato con gli obiettivi europei del “20, 20, 20” al 2020 del cosiddetto pacchetto “Clima energia” (che per i paesi dell’Unione europea fissa al 2020 l’obbligo di ridurre del 20% le emissioni  di CO2 equivalente, di coprire con fonti rinnovabili il 20% di tutti i consumi finali di energia, non solo quelli elettrici, e di ridurre del 20% i consumi). Come già avvenuto in passato, le nuove determinazioni della Ue incideranno non solo per l’effetto emulativo (la California, ad esempio, nel 2011 ha deciso di soddisfare con le rinnovabili un terzo dei consumi elettrici entro il 2020), ma anche per la creazione di un ampio mercato in grado di innescare una rapida riduzione dei prezzi delle tecnologie. Se oggi un impianto fotovoltaico costa due terzi in meno rispetto a cinque anni fa, lo si deve all’accelerazione imposta da alcuni paesi europei, in particolare dalla Germania e dall’Italia, leader a livello mondiale per potenza FV installata. Il nostro paese, peraltro, con il 7% dei consumi elettrici soddisfatti dal solare è, di gran lunga, il paese con la maggior quota di domanda elettrica coperta dal fotovoltaico.

Uno dei risultati di questa corsa al ribasso dei prezzi sarà, tra l’altro, il raggiungimento, in tempi decisamente più brevi rispetto alle previsioni, dell’accesso all’energia elettrica per gli 1,3 miliardi di persone che non sono ancora connessi alla rete.  Una ricaduta di straordinaria importanza,  da non sottovalutare.

Dal modello di produzione centralizzato a quello decentrato: la crisi delle utility

A seguito dell’installazione di milioni di impianti che utilizzano le fonti rinnovabili, il modello di generazione elettrica del secolo scorso basato su poche grandi centrali sta rapidamente mutando cambiando pelle. Sono infatti 500.000 i sistemi fotovoltaici censiti nel Regno Unito, 600.000 in Italia, addirittura 1,4 milioni in Germania. Al punto che la produzione da rinnovabili sta mettendo in forte difficoltà le compagnie elettriche tradizionali, che si vedono erosa una parte del mercato e che scontano, inoltre, una riduzione del prezzo di vendita all’ingrosso del kWh dovuta alla priorità di dispacciamento assegnata all’elettricità “verde”. Basti pensare che nel 2012 il fotovoltaico ha consentito in Italia un taglio di 0,8 miliardi di euro della bolletta elettrica: un indubbio guadagno per i consumatori, che ha però comportato minori entrate per le aziende elettriche (le utility).

Diversi recenti rapporti hanno evidenziato il loop inarrestabile che potrebbe innescarsi con l’ulteriore diffusione del fotovoltaico: al crescere del numero di impianti solari installati, il costo della bolletta salirebbe in seguito alla riduzione della base di utenti sulla quale caricare gli oneri di rete. D’altro canto, prezzi elettrici più alti renderebbero più appetibili gli investimenti nel fotovoltaico, restringendo quindi ulteriormente il numero di utenti paganti. “The unsubsidised solar revolution” (“La rivoluzione solare non sovvenzionata”) è lo studio promosso da UBS, il principale gruppo bancario svizzero, che descrive lucidamente questo scenario analizzando il caso di Germania, Spagna e Italia. La situazione tedesca risulta particolarmente critica per gli elevati prezzi dell’elettricità: secondo lo studio, al 2020 potrebbero venire installati 20 TWh solari non incentivati, che si aggiungerebbero ai 52 TWh sussidiati, portando ad un dimezzamento dei profitti delle compagnie elettriche.

Un altro rapporto dall’eloquente titolo “Disruptive challenges” (“Cambiamenti distruttivi”) predisposto dall’Edison Electric Institute, l’associazione delle utility statunitensi quotate in Borsa, segnala i rischi che potrebbero derivare, per le utility, dal solare oltre Atlantico. Lo spettro è quello di un progressivo calo dei clienti, tentati dall’abbinamento di fotovoltaico e accumulo dell’elettricità autoprodotta, in grado di ridurre la loro dipendenza dalla rete.

Di fronte a questo scenario, per non fare una fine analoga a quella della Kodak, costretta a chiudere i battenti a seguito dell’arrivo sul mercato delle macchine fotografiche digitali, diverse aziende elettriche stanno trasformando il loro modello di business: vendere meno kWh e offrire più servizi, proponendo efficienza energetica e tecnologie verdi.

Ha iniziato la RWE, la seconda utility tedesca, che ha lanciato un nuovo approccio strategico: non puntare più sul volume delle vendite, bensì sul valore dei servizi proposti, utilizzando in maniera intelligente le tecnologie informatiche. Significativamente, RWE afferma di voler diventare un soggetto attivo nella transizione energetica, e non di essere semplicemente “tollerata” in questa nuova fase.

Anche Enel sta rivedendo le proprie strategie alla luce dell’irruzione delle rinnovabili, che nel 2013 hanno soddisfatto un terzo della domanda elettrica italiana. Si tratta di reinventare una strategia con un’elevata attenzione verso il consumatore finale, offrendo proposte di efficientamento e aumentando così il valore aggiunto della propria attività.

Europa interconnessa e gestione dal basso

La crescita delle rinnovabili non programmabili (sole e vento) oltre certi livelli (25-30%), pone l’esigenza di un salto di qualità nella gestione della rete. Il rafforzamento delle connessioni tra più paesi consente di scambiare flussi elettrici di produzioni variabili che si possono così più facilmente programmare e gestire. In un paese si può avere brutto tempo e molto vento, mentre quello confinante può godere di una giornata soleggiata. Una gestione intelligente che faccia uso di modelli previsionali può consentire di bilanciare più efficacemente domanda e produzione, in accordo anche con le condizioni meteo locali che influenzano la produzione di elettricità FV o da fonte eolica.

Sempre su scala sovranazionale, le Alpi o i paesi Scandinavi con i loro sistemi di pompaggio possono fungere da batterie per l’Europa (la Danimarca in parte già utilizza i bacini di accumulo di Norvegia e Svezia per gestire l’elevata quota di eolico che in quel paese copre il 33% dei consumi elettrici e che arriverà a coprire il 50% nel 2020).

Un altro trend che caratterizza la transizione energetica verde europea è dato dal progressivo controllo e dalla gestione dal basso, complementare alla necessità delle forti interconnessioni sopra descritte. La cosa è evidente se pensiamo ai milioni di abitazioni, edifici del terziario, imprese agricole e industriali che già adesso in Europa soddisfano una quota dei loro consumi elettrici con le rinnovabili. In alcuni casi si va oltre al ruolo di semplici “prosumer” (produttori-consumatori). Per progetti più importanti, non affrontabili da singoli cittadini, si uniscono le forze per realizzare e gestire in forma cooperativa impianti eolici, solari, a biomassa. Questa strada è stata molto utilizzata all’inizio del boom eolico danese e vede tuttora esperienze vitali in Gran Bretagna e, soprattutto, in Germania, dove sono ben 650 le cooperative che hanno finanziato impianti di rinnovabili su scala locale. Mentre in Italia – è il caso di otto comuni della provincia di Bologna – stanno facendo i primi passi le comunità solari promosse dalle amministrazioni locali nell’ambito dell’adesione al Patto dei Sindaci e all’attuazione dei Paes (Piano d’azione per l’energia sostenibile).

La complessità della gestione elettrica in presenza di elevate quote di rinnovabili sta inoltre facendo emergere un nuovo concetto: i Virtual Power Plant (VPP). Si tratta, in sostanza, dell’aggregazione di una serie di impianti di produzione elettrica (ad esempio: una centrale a ciclo combinato, un parco eolico, un migliaio di impianti fotovoltaici) e del governo in parallelo della domanda (ad esempio: il contatore elettronico che, in rapporto alle esigenze della rete e ai prezzi variabili, seleziona la fonte di alimentazione elettrica del frigorifero più conveniente). In questo modo, grazie a modelli previsionali della domanda e dell’offerta, è possibile interfacciarsi in maniera intelligente sul mercato come se ci fosse un solo impianto a fornire energia alla rete. Si tratta di un modello smart in grado di gestire fonti tipicamente non programmabili, aggregando l’offerta, governando la richiesta di energia e utilizzando sistemi di accumulo.

La logica dei Virtual Power Plant è stata testata in Germania dalla RWE e da Siemens, che attraverso l’uso sofisticato di tecnologie informatiche gestiscono un cluster di impianti da 300 MW.

L’ultima novità riguarda le reti. Oltre al potenziamento delle interconnessioni e al passaggio “intelligente” alla bidirezionalità, cioè alla possibilità che l’elettricità oltre che viaggiare verso gli utilizzatori possa anche essere iniettata nella rete da punti di generazione distribuiti, si punta a controllare la rete stessa. Sta infatti emergendo in Germania una spinta verso la loro acquisizione con l’obiettivo di ottenere un maggiore controllo sulle nuove forme di generazione. Sono già 107 i comuni tedeschi che hanno ripreso il controllo delle reti. La decisione più recente in questo ambito riguarda la città di Amburgo, che con un referendum tenutosi nel settembre 2013 ha deciso di ri-municipalizzare la distribuzione elettrica. Questa tendenza potrebbe crescere, considerando che ben 8.000 comuni tedeschi dovranno rinnovare i contratti di distribuzione di elettricità e gas entro il 2015, e che, secondo un sondaggio, due terzi dei votanti preferirebbero un controllo dal basso delle reti. Ma questo movimento bottom-up incontra ovviamente delle resistenze. A gennaio 2014  la Corte Federale di Giustizia ha chiarito che le future municipalizzate potranno acquisire la gestione delle reti solo attraverso un meccanismo di gara pubblica.

Quale spazio al 2030 per le rinnovabili nell’Unione europea?

Ma torniamo agli obiettivi 2030. E’ pensabile che si riesca a mantenere il tasso di crescita delle energie verdi che si è raggiunto negli ultimi anni grazie, ad esempio in Italia, alla disponibilità di elevati incentivi, così alti da indurre i governi in alcuni casi a misure di riduzione retroattive?  In sostanza, siamo ancora nella fase ascendente della curva di penetrazione delle rinnovabili? Alcuni elementi inducono ad essere fiduciosi. 

Innanzitutto va considerata l’evoluzione delle tecnologie verdi che porterà ad ulteriori riduzioni dei costi. In alcuni casi, come nel fotovoltaico, nel prossimo decennio sarà possibile immaginare una diffusione senza incentivi, in buona parte attraverso sistemi misti di solare più accumulo dell’elettricità prodotta. Uno studio coordinato dall’Imperial College of London, a cui ha collaborato il GSE, ha stimato che una copertura al 10% della domanda europea al 2030 comporterebbe limitati oneri di integrazione alla rete elettrica. In Italia, una potenza solare 2,5 volte più elevata dell’attuale e una quota del 17% dei consumi elettrici comporterebbe una significativa riduzione delle importazioni di metano (meno 12%), mentre l’integrazione nella rete, in presenza di politiche di governo della domanda, avrebbe costi molto limitati.

Passando alle rinnovabili termiche, queste presentano ancora grandi margini di incremento con costi minimi e si espanderanno in parallelo con la riqualificazione energetica spinta del patrimonio edilizio esistente, oltre che nelle nuove costruzioni come richiesto già da alcuni regolamenti edilizi comunali, o da leggi nazionali, come nel Regno Unito, che ha fissato per legge l’obiettivo al 2016 di nuovi edifici carbon neutral, ossia  che hanno un impatto nullo in termini di emissioni di anidride carbonica legate ai consumi di energia. Anche su scala europea, peraltro, dal 2021 tutti i nuovi edifici dovranno essere nearly zero energy, a consumo energetico quasi zero, una vera rivoluzione per il settore delle costruzioni.

Troveranno un loro spazio anche applicazioni, al momento del tutto marginali, come la climatizzazione estiva e la fornitura di calore di processo nell’industria attraverso tecnologie solari.  Nel campo del riscaldamento con camini e stufe a biomassa, le nuove tecnologie e la loro corretta gestione, consentono di ottenere rendimenti elevati e un buon controllo delle emissioni. I miglioramenti ottenuti negli ultimi anni fanno auspicare l’avvio di programmi di sostituzione di vecchi impianti meno performanti dal punto di vista energetico ed ambientale.

I biocarburanti di seconda e terza generazione consentiranno, infine, di utilizzare biomassa locale, ed è prevedibile che la forte innovazione già avviata (dal bioetanolo di seconda generazione all’impiego delle alghe) favorirà la loro competitività rispetto ai carburanti tradizionali, con soluzioni che consentano di non entrare in competizione con la produzione agricola destinata al consumo alimentare. E’ prevedibile che troveranno spazio anche altre soluzioni, come il “biometano” che può garantire alte rese grazie alla rotazione delle coltivazioni alimentari ed energetiche.

Più in generale, la forbice tra l’aumento dei prezzi dei combustibili fossili e, al contrario, la contemporanea riduzione di quelli delle rinnovabili garantirà una spinta propulsiva eccezionale in grado di controbilanciare ampiamente gli elementi di rallentamento (come il progressivo esaurimento dei siti più produttivi per l’eolico).

Un recente studio del Fraunhofer Institute ha analizzato le evoluzioni dei costi dell’elettricità calcolati per l’intera vita degli impianti (Lcoe) in Germania, concludendo che sia l’eolico on-shore sia il fotovoltaico risulterebbero competitivi con le centrali termoelettriche per larga parte del prossimo decennio.

Con un’Europa alla ricerca di maggiore competitività e intenzionata a rafforzare la propria base industriale, si dovrà porre un’attenzione particolare alle tecnologie. In alcuni comparti l’ingegnosità e la virtuosità di piccole e media imprese sarà in grado di proporre prodotti competitivi in campo internazionale. In altri casi occorrerà invece uno sforzo coordinato a livello di ricerca e degli investimenti per raggiungere quella massa critica continentale necessaria a reggere il confronto con l’Asia, gli Stati Uniti e i paesi Arabi.  Un esempio in tale direzione viene dall’ambiziosa proposta franco-tedesca di rilanciare la ricerca sul fotovoltaico per arrivare alla lavorazione su larga scala di moduli innovativi con stabilimenti di capacità produttiva pari a 1-2 GW/anno, una sorta di progetto “Airbus” del solare, proposta che l’Italia dovrebbe esplorare seriamente, a partire dal ruolo che potrebbero giocare Eni ed Enel.

Per il raggiungimento dei target fissati al 2030 va infine considerato il ruolo dell’efficienza energetica che dovrebbe garantire, secondo le analisi di impatto effettuate dalla Commissione, valori dei consumi di energia inferiori del 2-15% rispetto a quelli del 2010 (vedi in questo volume il contributo di Monica Frassoni). A fronte, dunque, di una domanda di energia più contenuta, sarà più facile soddisfarla con le fonti rinnovabili.

In conclusione, dopo i target del 2020 che verranno agilmente superati dall’Italia e dall’Europa, è importante che dai nuovi organi istituzionali della Ue, che saranno insediati dopo le elezioni per il Parlamento europeo di maggio, vengano fissati traguardi ambiziosi al 2030: sul versante elettrico i target in discussione implicano che metà della produzione sarà generata da fonti rinnovabili, segnando irreversibilmente la linea di direzione del processo di decarbonizzazione in atto.

Ed è altrettanto importante che la cosiddetta fase “Rinnovabili 2.0” venga gestita con il minimo di incentivi e il massimo di contributo positivo al sistema energetico e produttivo, puntando su ricerca e innovazione e sulla capacità di creare un reale tessuto industriale dell’energia del futuro.

Questo passaggio non sarà indolore. I grandi gruppi energetici negli ultimi mesi hanno attaccato con inusitata violenza la politica dell’Europa, in particolare per gli obiettivi sulle rinnovabili. Una pressione che ha influenzato diversi governi e ha inciso anche sulle scelte della Commissione del febbraio di quest’anno.

Siamo dunque in una fase delicata. E il ruolo che può giocare la Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea nel secondo semestre di quest’anno, proprio nella fase di insediamento della nuova Commissione, è quindi molto importante. In quei mesi si avvierà infatti una delicata fase di conciliazione tra le posizioni sugli obiettivi al 2030 di Commissione, Parlamento europeo e Stati membri. E’ sperabile che l’Italia si ponga alla testa del gruppo di paesi che premono maggiormente a favore dell’accelerazione della transizione energetica, in funzione sia della competitività dell’industria del settore delle rinnovabili europea, sia della tutela del clima.

In gioco è il proseguimento della transizione energetica, ovvero se l’Europa potrà continuare ad essere un esempio per altri paesi. Con la decisione unilaterale di ridurre al 2030 le emissioni climalteranti del 40% rispetto al 1990 che sembra ormai acquisita e con nuovi obiettivi significativi su rinnovabili ed efficienza energetica al 2030 ancora da fissare, la Ue potrebbe favorire il raggiungimento di un accordo mondiale contro il riscaldamento del pianeta alla Conferenza mondiale sul clima in programma a Parigi nel 2015, dopo il sostanziale fallimento registrato alla precedente conferenza di Varsavia del 2013 .

La situazione odierna è molto differente rispetto a qualche anno fa. Basti pensare che la Cina investe nelle rinnovabili più che Europa, Usa e Giappone messi insieme. E che la sfida dei cambiamenti climatici rappresenta una delle priorità del secondo mandato di Obama.

Ci sono, insomma, le condizioni perché l’Europa (e il nostro paese con essa) affronti con rinnovata convinzione la svolta energetica della decarbonizzazione. E per i cittadini europei la ragionevole speranza che si compia questo passaggio decisivo per la transizione dall’economia fossile ad una basata sulle rinnovabili,  anche, e non da ultimo, come contributo per evitare che i cambiamenti climatici già in atto evolvano verso un esito catastrofico.

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