I danni e gli sprechi causati dal gas flaring

Nel mondo si continua a bruciare a cielo aperto il gas sottoprodotto dell'estrazione petrolifere. Sprecata una quantità di gas pari al 30% del fabbisogno europeo. Produce emissioni pari a quelle di 125 centrali a carbone. Ci si muove per porre fine a questa pratica, ma troppo lentamente. Un report di General Electric dà la fotografia del problema.

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“Uno spreco multi-miliardario, una tragedia ambientale a livello locale e globale, un problema energetico che può essere risolto”. Si sta parlando del gas-flaring, la pratica di bruciare a cielo aperto il gas che esce assieme al petrolio nei giacimenti. Questo virgolettato non viene da un’associazione ambientalista, ma da un report pubblicato dalla grande multinazionale americana General Electric. Uno studio che vuole dare le dimensioni del problema a livello mondiale e mostrare le soluzioni (allegato in basso).


I numeri che vi si leggono sono impressionanti: ogni anno si bruciano a cielo aperto 150 miliardi di metri cubi di gas, tipicamente sottoprodotto dell’estrazione del greggio. Uno spreco pari al 5% della produzione di gas mondiale. Una percentuale che sembra contenuta solo se non messa in relazione con altre cifre: è circa il 30% del fabbisogno di gas europeo e comporta mancati guadagni per circa 10 miliardi di dollari. Ma soprattutto, causa inquinamento difficilmente quantificabile ed emissioni climalteranti pari 400 milioni di tonnellate di CO2: più o meno il 2% del totale delle emissioni del settore energetico. Il gas flaring ha sul clima lo stesso impatto che hanno grosso modo le emissioni di 77 milioni di auto o di 125 centrali a carbone di media taglia per una potenza cumulata di 63 GW, come il 67% del parco carbone di una nazione enorme come l’India.


Il primo paese al mondo per gas bruciato a cielo aperto è la Russia. Su queste pagine abbiamo già parlato dell’impatto del gas flaring raccontando le pratiche di Eni in Nigeria (Qualenergia.it, Nigeria, un Golfo del Messico dimenticato), ma la pratica, come si vede dalla cartina, è diffusa un po’ tra tutti i paesi produttori di petrolio.“Il problema del gas flaring – spiegano gli autori del report GE – è un classico caso in cui non si riescono a contabilizzare i costi reali della produzione energetica sulle popolazioni locali, a questo si aggiunga il fallimento delle politiche in materia che hanno permesso che la pratica continui.” Le tecnologie per risolvere il problema in realtà già ci sono: il gas lo si può catturare e distribuire, anche liquefatto, usare per produrre elettricità o anche da re-iniettare nei pozzi per far uscire il greggio. Il problema è che finora queste soluzioni non sono state ritenute convenienti da chi gestisce i giacimenti.



Qualcosa sta lentamente cambiando in questi ultimi 10 anni. I progetti di alcuni nuovi pozzi petroliferi, come quelli in Angola o in Kazakistan, si legge nel report, sono già concepiti per gestire anche il gas sottoprodotto. Paesi come la Russia stanno lentamente affrontando il problema, ma purtroppo un piano per aumentare le penali di chi non riutilizza almeno il 95% del gas è appena stato posticipato dal 2012 al 2014. Anche in Nigeria, dove Eni ha un progetto per mettere finalmente un freno alla pratica di gas flaring nei suoi giacimenti, la deadline per fermare tutto, che ricordiamo resta illegale, è stata anche qui posticipata. Ma se in alcuni paesi, come Kuwait, Indonesia, Kazakistan, Angola e Siria, la pratica si sta riducendo a causa di regole più severe, in altri, come Venezuela, Uzbekistan, Ecuador, Iraq, e Libia, invece il gas flaring sta aumentando. C’è poi il problema delle piattaforme off-shore dove catturare il gas è ancora più oneroso.


Insomma, una situazione che sta evolvendo troppo lentamente: se ci fosse più convinzione, secondo il report, il gas flaring potrebbe essere eliminato già entro 5 anni. Come fare? Secondo General Electric più che sanzioni occorrono investimenti pubblici. La proposta della multinazionale è di riformare, rendendolo meno restrittivo, il Clean Development Mechanism, il meccanismo per la riduzione della CO2 che dà crediti ai progetti che riducono le emissioni.


Fino ad ora per i progetti di riduzione del gas flaring è stato difficile accedere ai crediti CDM, per via del requisito dell’addizionalità: ovvero dover dimostrare che quella riduzione delle emissioni non si sarebbe fatta se non grazie al meccanismo CDM. Una dimostrazione un po’ “tirata per i capelli”, dato che il gas flaring andrebbe comunque eliminato per gli altri danni ambientali che produce e perché già illegale in diversi paesi. Quella di General Electric di rendere più facile ai progetti di riduzione del gas flaring accedere ai meccanismi di compensazione per le emissioni è una proposta che farebbe storcere il naso a molti, come aveva commentato a proposito Nnimmo Bassey, attivista nigeriano e Presidente di Friends of the Earth International: “è come se un ladro chiedesse di essere pagato per smettere di rubare”.

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