Perché poca industria fotovoltaica in Europa?

Quali i motivi che non hanno portato nessuna industria europea del FV a far parte della top15 mondiale, nonostante l'occasione offerta in questi ultimi anni da importanti incentivi erogati a favore della tecnologia in Germania, Italia e Spagna? Ne abbiamo parlato con l'ingegner Pietro Pacchione, con uno sguardo anche al nostro paese.

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Se guardiamo l’ultimo rapporto IHS sui maggiori produttori di pannelli fotovoltaici nel mondo, c’è qualcosa che colpisce: nelle prime 15 posizioni, non c’è neanche un tedesco, un italiano o uno spagnolo. Nessuna azienda dei paesi che hanno pagato la maggior parte degli incentivi al solare nei primi anni del boom di questa tecnologia, è riuscita a creare una grande industria del settore. Certo, si dirà, i cinesi hanno fatto piazza pulita. Ma non è proprio così: nei primi 15 posti ci sono anche tre società giapponesi, due statunitensi, una canadese e persino una norvegese.

Viene quindi da chiedersi perché nessuna impresa della UE sia riuscita ad approfittare dell’enorme occasione industriale rappresentata dagli incentivi, come, in fondo, hanno fatto tutti i paesi del mondo, Cina in testa, venuti a vendere qui, e costruendo su queste vendite un nuovo, grande settore industriale.

Lo abbiamo chiesto all’ingegnere Pietro Pacchione, direttore operativo della società Green Utility SpA e membro del consiglio direttivo di Assorinnovabili.

Ingegner Pacchione, gli incentivi hanno fatto male all’industria dei paesi che più ci hanno investito?

In realtà a far male sono state politiche schizofreniche, con esagerazioni in certi periodi e frenate troppo brusche in altri, che hanno spiazzato chi era intenzionato a investire nella produzione industriale nei paesi europei. Esistono esempi virtuosi di aziende che hanno avuto il coraggio di investire in stabilimenti produttivi in Europa, ma i continui stop and go di mercato non hanno consentito a queste aziende di strutturarsi e competere con le asiatiche.

Eppure in altri paesi, e non solo in Cina, grazie agli stessi incentivi tedeschi, italiani, spagnoli, si è riuscito a costruire grandi aziende, che ora prosperano nel nuovo boom globale del fotovoltaico.

È vero, ma qui giocano ben altri fattori: in quei paesi, dietro a quelle aziende del fotovoltaico, si sono mossi enormi colossi finanziari e industriali, che hanno creduto nel nuovo business, dando i capitali necessari a far crescere in quelle aziende la produzione a livello di GW e proiettarle immediatamente su mercati internazionali, mentre da noi non ci siamo mai mossi al di là delle decine o, in pochi casi, centinaia di MW, con orizzonti il più delle volte prettamente nazionali. Molte aziende asiatiche, poi, si sono integrate verticalmente: dal silicio fino ai moduli. È chiaro che a quei livelli ottieni economie di scala imbattibili. In Italia, Spagna e Germania, invece, dietro alle aziende del FV quasi sempre ci sono singoli imprenditori illuminati, quasi mai una grande corporation. Anzi chi ci investiva, tipo Bosch si è rapidamente ritirato. Così le aziende sono rimaste piccole, esposte alle congiunture negative e incapaci di competere sui mercati internazionali. È un peccato che le grandi società tecnologiche o energetiche europee non abbiano creduto in questa fonte, ma anzi talvolta l’abbiano ottusamente ostacolata. Oggi sarebbero fra quelle che fanno profitti dal boom globale. E l’amarezza cresce, pensando che in Italia, fino agli anni ’90, Eni produceva celle e moduli fotovoltaici, mentre Enel investiva nei  primissimi grandi impianti solari.

Però questa spiegazione va bene per le aziende cinesi e giapponesi, non per la canadese Canadian Solar, che è al terzo posto nella classifica IHS, o per le statunitensi First Solar e Sun Power e ancora meno per la norvegese REC, tutte fra i primi quindici della classifica IHS.

In realtà sia i canadesi che i norvegesi, sono tali solo di nome: gli stabilimenti produttivi li hanno in gran parte in Asia, mentre gli statunitensi oltre a godere di protezioni di mercato, hanno intrapreso una strategia vincente di integrazione sul fronte IPP (Indipendent Power Producer, cioè l’azienda crea centrali che vendono energia per la rete direttamente alle utilities, ndr), e una diversificazione tecnologica, creando prodotti diversi rispetto al classico pannello policristallino,  appannaggio, in larga parte, dei mercati asiatici. Devo con rammarico evidenziare che la recente introduzione di dazi dell’UE sui moduli fotovoltaici cinesi, senza entrare nel merito della correttezza o meno di tale strumento, non ha sicuramente sortito l’effetto voluto in termini di salvataggio di aziende locali, data la tardività dell’applicazione.

Ma forse per l’Europa ha pesato molto il maggior costo dell’energia, mentre quello del lavoro, almeno nel caso dei moduli, non sembra determinante, essendo assemblati largamente da robot.

Contano anche questi fattori, ma in senso inverso: l’energia, nell’assemblaggio di moduli non è un gran problema, mentre lo è nella preparazione del silicio; il costo del lavoro, invece, ha influenzato la competitività nei primi anni del boom del fotovoltaico, perché l’introduzione dei robot è avvenuta più di recente.  Ma, ripeto, il fattore principale è la dimensione delle aziende, che ha permesso economie di scala impossibili per quelle europee. Fermo restando che non bisogna dimenticare che i pannelli sono ormai una commodity relativamente a basso costo: incidono per il 30-40% sul costo di installazione di un impianto FV e addirittura la metà nel corso dei 20-30 anni della sua esistenza. Il resto sono cavi, componenti elettrici, inverter, progettazione, manutenzione, tutte cose in cui eccellono molte aziende italiane.

Curiosamente l’eccezione alla regola del disinteresse delle grandi aziende verso il fotovoltaico, ce l’abbiamo in Italia: la joint venture siciliana 3-Sun, Enel Green Power-Sharp-STMicroelectronics.

Si, la vera eccezione europea è la nostra Enel Green Power. Dovremmo essere molto, molto fieri del management di questa azienda, che è diventata il più grande produttore di energia da fonte rinnovabile al mondo.

In realtà è molto criticata in Italia, perché da noi non installa quasi nulla.

È un grosso errore, EGP va giustamente dove c’è contemporaneamente aumento demografico, richiesta di energia e alti costi del kWh: in quelle situazioni c’è spazio per tutti e le rinnovabili si battono alla pari, e sempre più spesso vincono sulle fonti fossili, a prescindere dalla presenza di incentivi o meno. In Italia siamo in piena overcapacity, e purtroppo dobbiamo riconoscere che il futuro mercato del fotovoltaico sarà principalmente l’autoconsumo. Tornando ad EGP, dobbiamo ammettere che operando globalmente sta di fatto contribuendo a sostenere l’industria italiana delle rinnovabili, esportando  know-how e  componenti  italiane, a partire dai suoi stessi pannelli, ovviamente. Ma non basta. Quel grande gruppo fa da apripista per altre aziende italiane del settore rinnovabili, che se ne stanno andando all’estero a lavorare. Da sole, queste piccole aziende non riuscirebbero a penetrare mercati dove sono sconosciute, ma dopo che è passato il gigante EGP, si aprono spazi anche per loro. Si pensi ad esempio al progetto RES4MED,  una nuova iniziativa per lo sviluppo delle rinnovabili nel Mediterraneo, di cui EGP è una dei maggiori sostenitori.

In Italia non riuscite più a lavorare?

Purtroppo il contesto diventa sempre più sfavorevole, con una serie di normative che rendono sempre più difficile la nostra attività. Adesso, per esempio, questi annunci di interventi retroattivi sugli incentivi tramite uno “spalma incentivi  obbligatorio” sono la goccia finale; faranno scappare gli ultimi imprenditori e investitori rimasti, minando la credibilità del Paese. Come si fa ad andare a parlare agli investitori della City di Londra un giorno, e poi modificare unilateralmente contratti fatti dallo Stato con operatori privati, il giorno dopo? È pazzesco, proprio ora che il fotovoltaico sta crescendo a tassi esponenziali all’estero diventando sempre più competitivo con le fonti tradizionali, noi, che con i nostri incentivi quel boom abbiamo innescato, ora cerchiamo di ostacolarlo in tutti i modi. È una strategia perdente, come cercare di fermare internet.

C’è speranza che l’industria del  fotovoltaico, un giorno torni in Europa?

Che in Europa tornino le fabbriche di pannelli, mi pare difficile se non per applicazioni di nicchia come soluzioni customizzate vetro/vetro o prodotti per integrazione architettonica, ma come ho detto, i pannelli sono ormai una parte minoritaria dell’industria delle rinnovabili. Oltre alla componentistica che ho citato prima, grazie all’esperienza fatta in Italia in questi anni, noi di Green Utility, così come una cinquantina di altre aziende simili, possiamo ora andare a progettare e realizzare impianti a rinnovabili all’estero, sia per la produzione in rete, sia per la fornitura di energia, a prezzi garantiti, a grandi società industriali o minerarie, che altrimenti, vista l’assenza o la scarsa affidabilità delle reti locali, dovrebbero sopperire con la sempre più costosa generazione a gasolio. Insomma, i SEU che si vorrebbe lanciare in Italia, noi già li facciamo all’estero. Per fare solo un esempio del successo che gli italiani stanno avendo fuori d’Italia, grazie alle rinnovabili, ricordo che la milanese Solar Ventures, ha appena vinto una gara per la costruzione di un impianto fotovoltaico da 66 MW in Giordania. In Italia, purtroppo, lavori così ce li sogniamo.

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